21.11.13

“Crónica de una muerte...”. Rossanda scrive, Márquez risponde (1982)

In una lettera del maggio 1982 Rossana Rossanda, scrivendo a Gabriel Garcia Marquez, propose alcune valutazioni e rivolse alcune domande allo scrittore latino-americano sull’ultimo suo romanzo, la Cronaca di una morte annunciata. I temi dell’interrogazione rossandiana sono soprattutto il rapporto tra fatalità e responsabilità e del ruolo femminile, ma a tutto è sotteso un dilemmatico ragionare sulla rivoluzione, sulla involuzione dei “socialismi reali”, sul che fare. Marquez un paio di mesi dopo rispose, glissando sui temi generali e riferendosi quasi esclusivamente al suo romanzo, alle scelte che aveva fato, al rapporto tra letteratura e realtà. Ma, se ben si legge tra le righe, lo schermirsi dello scrittore rispetto alle intenzioni metaforiche che a torto molti lettori tendono ad attribuirgli non gli impedire di dare, per via indiretta, qualche risposta importante. I due testi furono pubblicati sul “manifesto” nel luglio, qualche mese prima che a Gabriel Garcia Marquez venisse assegnato il premio Nobel. (S.L.L.)

Il tema è la responsabilità ed è un tema degli anni '70
di Rossana Rossanda
Gabriel, ho letto la Crònica come nessun altro dei tuoi libri, fuorché i Cento anni. E più leggevo, più la differenza fra quei cento anni densissimi — ogni pagina dieci storie, dieci vite, dieci morti — e questa giornata rarefatta mi colpiva come una differenza non di stile, ma di visione del mondo. Differentemente da quanto è scritto sul risvolto di copertina, in Crònica il protagonista indiscusso non è il tema della fatalità ma quello della responsabilità. In Cento anni la fatalità legava la sorte degli uomini quasi alla corsa della natura; Macondo non riusciva a essere storia. Chi voleva farne intellezione o storia, o impazziva come Arcadio o perdeva tutte le sue guerre, come Aureliano Buendia. Il decadimento era ineluttabile e si consuma appunto quando fra un uomo e una donna non c'è più che il sesso, cioè la natura, e tutto quel che era stato sognato e pensato si perde, anche la memoria, e si disfa la casa di Ursula. Non è cosi?
In Crònica l'impossibilità di fermare quello che tutti sanno e non vogliono, la morte di Santiago Nasar, è un destino? Non mi pare. Essa non è obbligatoria. Il destino inganna duramente solo la madre di Santiago, facendole sbarrare la porta che lo salverebbe; tutte le altre volte, lascia agli uomini la possibilità di giocare le loro carte. E arde per tutto il libro un giudizio morale non detto sull'inerzia, l'accidia, la fuga di chi le sue carte non le gioca. Non è così?
La responsabilità del silenzio è ancora più forte in quanto in Cento anni gli antichi costumi o favole erano ancora «un valore». Qui non lo sono più. Sono non più che la ripetizione d'un rito cui nessuno crede. Nessuno crede alla verginità e all'onore. La vita di Santiago, dei due fratelli, di Angela, di Bayardo è giocata per niente. Il silenzio è soltanto una resa senza combattere. Se non lo sapessimo, tu che scrivi e noi che leggiamo, Bayardo non tornerebbe venti anni dopo da Angela: non perché ha letto le sue lettere, ma perché al tempo — solo al tempo — è stato lasciato di finire quel che già era finito, l'onore come sostitutivo dell'identità. Non è cosi?
Il problema di queste ore che sono la Crònica è che, se non ci fosse il mito cui nessuno più crede, non ci sarebbero regole di comportamento. Questa regola morta impone comportamenti al vivi. Impone dei dilemmi: parlare o tacere? Specie le donne decidono di parlare, ma sono donne e quel che dicono non conta. I due poveri fratelli urlano addirittura, ma non possono liberarsi da soli: li prenderebbero per vili. Chi li potrebbe liberare – Aponte, i funzionari – tace per inerzia, per incertezza, non per destino. Non è così?
Di fronte a questo destino non obbligatorio, all'individuo non resta che misurare la forza di sopportarlo se ne è vittima. Non tutti sono vittime, molti sono complici, anche Flora, o Victoria. Uno solo è vittima assoluta, Santiago, il quale si misura col suo destino splendidamente, fino alla battuta finale con tua zia. Però c'è un'altra vittima, specificamente femminile, Angela: la quale anche si misura valorosamente con il solo dovere che ha, non mentire a se stessa. Non mente, quando indica In Santiago 11 seduttore: come oggi direbbe una femminista, potrebbe essere lui o un altro, l'uomo è 11 suo nemico o padrone. E infatti nessuno si chiede se sia stato lui, né ci crede. Un'altra scopre quanto «le donne sono sole al mondo». E tu, quando lo hai scoperto? Questa è la prima volta che lo dici. Da quando sai che è così?
Se tutto il villaggio lascia controvoglia morire Santiago, rovinarsi Angela e i suoi fratelli, scomparire Bayardo è perché questo mito già morto dell'onore non solo gli offre alcune regole, ma è sostitutivo dell'identità. Non ce n'è altra. Se ci fosse stato Aureliano Buendia, che un'altra identità (cosa a cui credere, idea, principio di valore) l'aveva, Santiago non sarebbe morto. Ma Aureliano in Crònica è già morto. E già stato sconfitto da tutti e dalla vita. È un libro degli anni settanta, a eroi morti. Non è così?
Ma se io lo traduco nella vita nostra, non trovo in questi dieci anni, oltre a chi irride il mito, molti che non osano denunciarlo perché temono di perdere con esso quel nocciolo di verità che sta dietro a ogni «imperativo» morale o sociale? Non tacciamo davanti agli esiti delle rivoluzioni, cui abbiamo dedicato la vita, per paura che cada l'idea di rivoluzione, e così la lasciamo assassinare e assassinarsi, divenuta fragile perché simile all'avversario? Chi crede che la rivoluzione era un'utopia, può tacere; ma chi non lo crede, non è simile a tutti coloro che tacciono davanti alla morte annunciata ed evitabile? So quanto è difficile parlare dei «socialismi reali», specie di Cuba, in America latina. Ma se sono per essa quel che el honor è in Crònica, l'America latina non è perduta? Tu che cosa credi?
Il mito è consolatorio, la verità non sempre lo è. Rincorrere la rivoluzione quando le rivoluzioni sono brutte a vedersi non è facile. Ma possiamo sfuggire a questo dilemma, noi che ci crediamo ancora? O sei diventato scettico? Crònica mi dice che no. Ed il nostro silenzio che descrivi. Que te pasò? ci possono domandare. Que me matàron, possiamo rispondere.
Ti abbraccia Rossana.
Parigi, 9 maggio 1982

Il tema è la fatalità ma non è una metafora dell’oggi
di Gabriel García Márquez
 1.
Mai sono riuscito a capire interiormente i critici. E neanche molti lettori che credono di vedere nei libri certi valori che neppure si prospettano nelle intenzioni dell'autore. In Cronaca d'una morte annunciata, cosa che mi interessò durante i trent'anni buoni nei quali non mi decidevo a scrivere, fu il fatto fantastico che tutto il villaggio sapeva che Santiago Nasar stava per essere ammazzato, e che era il solo a non saperlo. Era questo che mi permetteva non solo di raccontare una storia sorprendente, ma di tentare un'analisi in profondità della società in cui vivo. Per il resto, era un dramma ordinario ancora oggi, e non solo in America latina ma in molti paesi del mondo, Italia compresa.
Negli ultimi anni, poi, scoprii un elemento del dramma che senza dubbio è l'unico nuovo, e secondo me il più originale; e cioè che i fratelli che avrebbero ammazzato Santiago Nasar non avrebbero voluto farlo, ma si sentivano costretti da una coazione sociale. Di più: in quell'alba sinistra avevano fatto di tutto perché qualcuno glielo impedisse, e non ci erano riusciti. Fu questa rivelazione che mi decise infine a scrivere il libro.
2.
In nessun momento ho considerato la fatalità come fattore determinante del dramma, cosa che invece sembra interessare più d'ogni altra ai critici. A mio modo di vedere qual che in questo libro somiglia alla fatalità non è se non un elemento meccanico della narrazione. Come in Edipo re di Sofocle, la cui essenza non sta nella fatalità degli eventi, ma nel dramma dell'uomo in cerca della propria identità e del proprio destino.
Cronaca d'una morte annunciata si basa su un fatto reale che accadde in Colombia nel 1950, proprio come è raccontato nel libro. Le uniche varianti che apportai furono superficiali, e rispondevano piuttosto a ragioni tecniche che letterarie. Il mio lavoro è consistito nello scoprire e mettere in luce la serie quasi infinita di coincidenze minuscole e concatenate che in una società come la nostra resero possibile quel delitto assurdo. Tutto era evitabile e fu la condotta sociale, non il fato, quel che impedì di evitarlo. In questo senso hai ragione: questo non è il dramma della fatalità, ma della responsabilità. Di più: della responsabilità collettiva. Credo, anzi, che il libro finisca con lo screditare il mito della fatalità, dato che ne smonta pezzo per pezzo le componenti elementari e dimostra che siamo noi gli unici padroni del nostro destino.
Tutto questo mi pare più evidente ogni volta che ricordo quel giorno funesto. Io non vi assistei personalmente, però conoscevo molto bene il luogo e conoscevo molto bene i protagonisti che erano più o meno tutti gli abitanti del villaggio. Ricordo che quando ebbi la notizia e conobbi i particolari del delitto, la mia prima reazione fu di rabbia, precisamente perché tutto mi sembrava evitabile. Da allora ogni testimone con cui ho continuato a parlarne continua a chiedersi com'è successo che egli stesso non poté impedirlo, e in tutti ho trovato un'ansia tale di giustificare quel che fecero quel giorno che m'è parso di riconoscere in questo un certo sentimento di colpa. E credo che quel che li paralizzò quel giorno fu la sensazione, consapevole o no, che quel crimine rituale era un atto moralmente legittimo.
3.        
E' curioso che tu menzioni il gesto della madre che sbarra la porta all'ultimo momento, perché in verità è l'unico che sembra determinato dal destino; non solo nel libro ma nella realtà. E per questa ragione sono stato in dubbio molti anni prima di utilizzarlo. Ma il suo peso reale era troppo grande.
Mia madre, che di fatto era comare e amica intima di Prudencia Linero, mi fece promettere che non avrei scritto il libro finché Prudencia Linero era viva. «Morrebbe di dolore se si vedesse in un libro nell'atto di chiudere quella porta», mi disse mia madre. Io aspettai finché morì.
L'attesa mi servì a capire che la madre di Santiago Nasar non era una ruota libera nell'ingranaggio sociale. Come parevano credere coloro che dicevano che se non fosse stato per quella porta sbarrata suo figlio non sarebbe stato assassinato. La verità è che lei sbarrò la porta, come ebbe a spiegare molte volte prima di morire, perché mai avrebbe creduto che due disgraziati macellai di porci si sarebbero azzardati a uccidere un giovane ricco, di quelli che abitavano in piazza, segno di distinzione sociale nel villaggio. Credette che sarebbero venuti a fare pubblicamente uno scandalo, e chiuse la porta perché non lo facessero dentro casa. Ma questa verità era debolissima nella dinamica del racconto, e perciò ricorsi a una mistificazione poetica.
4.        
Una delle prime persone che lesse il libro mi disse: «Questo non è che uno sporco affare di donne».
Un altro mi segnalò che era un dramma di giovani, perché è vero che nessuno dei protagonisti aveva più di 25 anni, e gli parve di capire che li libro provava come fossero stati i pregiudizi degli adulti a determinare la tragedia. In ogni caso, la convinzione mia è che la partecipazione delle donne fu decisiva nella tragedia; e corrisponde alla mia convinzione che il machismo è un prodotto delle società matriarcali. Il personaggio che comanda il dramma dall'ombra, è Pura Vicario, la madre di Angela, e non credo che lo facesse per vocazione, ma perché pensava che la famiglia non sareb¬be sopravvissuta alla messa al bando sociale se i suoi figli non l'avessero lavata dall'affronto. Angelo lo scoperse più tardi, nell'albergo del porto di Riohacha, quando tornò a vedere lo sposo che l'aveva ripudiata e scoprì che lo amava sopra ogni cosa, e capì che la madre era l'unica responsabile della sua disgrazia.
Il personaggio di Clotilde Armenta, che nella realtà non è esistita, lo inventai di sana pianta perché mi occorreva come una replica alla madre di Angela Vicario. La costruii man mano che scrivevo, e a ogni passo mi rendevo conto che la sola cosa che potesse fare per impedire il crimine era chiedere aiuto ad altri, e quasi sempre di uomini. Era una verità non solo dentro alla finzione narrativa, ma dentro alle condizioni sociali del villaggio. Al culmine del dramma dovetti scoprire io stesso, come attraverso un'illuminazione, dove si radicava l'impotenza di Clotilde Armenta a impedire il delitto e feci che dicesse: «Miodio, come sono sole le donne al mondo» Solo allora lo seppi, però nel saperlo mi resi conto che lo sapevo dà molti anni e non riuscivo a spiegarlo neanche a me stesso. Per questo ho detto qualche volta che scrivo per cercar di capire molte cose che non capisco. Credo, infine, che ciò che più rivela l'ingiustizia e miseria di quella società è che la donna più libera del villaggio, anzi l'unica libera, è Maria Aleandrina Cervantes, la Puttana Grande.
5.
Le vere circostanze per cui Bayardo tornò alla moglie ripudiata non furono quelle dette nel libro. Devo riconoscere che in questo caso la realtà è più istruttiva. Prima di tutto, non sono esistite le lettere. Di modo che hai ragione quando dici che non furono queste a determinare il ritorno di Bayardo San Roman; ma «perché, al tempo è stato lasciato di finire quel che già era finito, l'onore come sostitutivo dell'identità». Nella realtà fu l'uomo a fare ogni tipo di manovra segreta per essere ricevuto da Angela, e fu lei che non lo ricevette, con l'argomento che non voleva dare alla madre un così grande dolore finché era viva.
Quel che mi interessa ora è che questo tentativo di riconciliazione fu immediatamente noto fra i sopravvissuti al dramma; e questi ne divulgarono la versione come se fosse un fatto compiuto che i due vecchi sposi sarebbero tornati a riunirsi e sarebbero vissuti felici fino alla morte. Dovettero sentire che tutti avevamo bisogno di questa riunificazione, perché era come la fine della colpa collettiva, come se il disastro di cui tutti eravamo colpevoli ne venisse non solo riparato ma cancellato per sempre dalla memoria sociale. Mai ho pensato — come tu sembri pensare — che tutto questo fosse una metafora del mondo d'oggi.
Parigi, 8 luglio 1982


“il manifesto”, 11 luglio 1982

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