21.11.13

Matematico mancato. I ricordi giovanili di Cesare Musatti

Mentre cercavo altro, ho trovato su un vecchio numero di "Belfagor", la rivista fondata da Luigi Russo,  i ricordi giovanili di Cesare Musatti, considerato il padre della psicanalisi in Italia. Comunicano l'immagine di un'antica città, di un milieu intellettuale, di un'inquietudine, sullo sfondo della Grande Guerra. Ne riprendo una parte, la cui lettura suggerisco. (S.L.L.)
Quando una persona molto anziana ritorna in un luogo dove ha vissuto in gioventù, gli sembra che tutto avrebbe dovuto rimanere come prima, che la gente debba essere la stessa, e che quindi il raccontare storie del passato sia semplicemente un ripetere cose risapute da ognuna delle persone attuali.
Mi rendo conto che non è cosi. I padovani del tempo in cui abitavo nella loro città non esistono più. Salvo qualche rara eccezione, come quella capitatami qualche mese fa, quando trovandomi a Padova per poche ore e avendo preso un taxi, mi sentii chiamare per nome dal vecchio taxista, che non solo aveva riconosciuto me, ma che mi parlò di Marchesi e di Meneghetti, esaltandone le figure. Cosicché alla stazione dove mi portò ci siamo abbracciati, e lui neppure voleva che gli pagassi la corsa. Eppure son passati quarantasette anni, mezzo secolo dunque, da che ho lasciato la città. Sono tuttavia eccezioni, commoventi assai, e che fanno pensare: «Non sono ancora un trapassato redivivo che viene improvvisamente a trovarsi in un luogo ed in un tempo che non sono più suoi». Anche se la città è cambiata, e pure imbruttita, lasciatemi dire, e se la vita che vi si svolge è sotto molti aspetti mutata.
A Padova, da Venezia dove abitava la mia famiglia, sono venuto nel 1915, appena scoppiata la guerra. Avevo finito il Liceo in primavera, e in autunno venni a studiare matematica. Due formalità erano obbligatorie: il papiro che sanzionava l'essere matricola, e la visita a colui che era il vero padrone dell'Università, il bidello capo, Gamba. Era questi un uomo anziano, che dava del tu non solo a tutti noi, ma anche ai Professori suoi coetanei, come il senatore Tamassia, e che contava molto di più del Rettore Magnifico. Quest'ultimo era il reggente accademico dell'Università. Ma per quanto riguardava la vita spicciola degli studenti, chi comandava era Gamba.
Il mondo studentesco, pur avendo carattere regionale, comprendeva elementi provenienti da una fascia ristretta di popolazione. Era la borghesia veneta (prevalentemente la borghesia dei professionisti) che forniva per la maggior parte (e salvo i figli dei contadini un poco arricchitisi, e che avevano studiato nei seminari e nelle altre scuole religiose) le successive annate di studenti. Questi erano dunque figli degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, dei professori, dei farmacisti della regione. E in genere seguivano la professione paterna. Cosicché Gamba mi chiese: « Ma allora ti, Musatti, ti xe fio de Elia, e cugin de Alberto. E come mai no te studi lege? ». Dovetti giustificarmi. Come pure dovetti darne spiegazione quando dalla matematica pura passai, provocando in lui un sorriso di compassione, in filosofia: « Roba da preti », diceva lui.
In facoltà di Scienze, biennio preparatorio per poi optare o per ingegneria o per matematica pura, io mi trovavo bene. Avevo professori di grande valore: Ricci Curbastro, che faceva analisi prima, Severi che faceva geometria descrittiva, ed altri. Io andavo a lezione, avendo già letto per conto mio le dispense. E quindi sapevo rispondere quando venivo interrogato. Ed ero considerato un asso. Pure qualche cosa non andava: una certa aridità dei corsi di matematica, un disinteresse per certi argomenti dei quali fin dal liceo mi ero occupato. Il problema dei principii, e la dimensione storica degli studi matematici. Una matematica come iscritta ab aeterno nel mondo della natura, e non una conquista progressiva, ed una costruzione dell'uomo. Cominciò cosi a nascere in me una nostalgia per l'aspetto storico del pensiero.
C'era poi anche un fattore umano; voglio essere del tutto sincero: nel biennio preparatorio di matematica, salvo quattro suore inviate d'autorità dal Vescovo che aveva bisogno di insegnanti di matematica da inserire negli Istituti tenuti da religiosi, non c'erano donne. Soltanto maschi, e tutti giovani della mia classe di leva, 1897, quella non ancora chiamata sotto le armi. Il '96 era partito in quei mesi. L'atmosfera era perciò deprimente, come lo è sempre un ambiente di soli maschi. Invece in facoltà di Lettere e Filosofia - salvo sette od otto studenti, o giovani come me, o scartati alla visita di leva - erano tutte ragazze. Con le donne mi sono sempre trovato bene. Continuo a trovarmi bene anche oggi. Non che facessi il galletto. Ma la mentalità femminile mi ha sempre attratto. Non ho avuto sorelle, ma molte cugine, e quel tipo di rapporti non sororali, ma neppure da avventuretta, insomma - come dico - le cugine, era per me molto soddisfacente.
E poi c'era, come professore di filosofia teoretica, Antonio Aliotta. Questi, che aveva studiato a Firenze con De Sarlo, era uno dei pochi filosofi italiani che, diciamo cosi, sapesse di scienza: fuori dal piatto positivismo allora in auge, specialmente a Padova, dove viveva ancora Ardigò (che andai un giorno ad ossequiare al Pedrocchi, dove lo si trovava regolarmente alle due e mezzo del pomeriggio). Aliotta era munito di una certa informazione circa gli orientamenti scientifici sopra tutto tedeschi. Citava Helmholtz, e aveva tenuto, l'anno prima che arrivassi io, un corso di filosofia teoretica in cui si trattava della reazione idealistica contro la scienza, corso che fu poi pubblicato e che mi attraeva molto. Aliotta aveva anche scritto un libro sulla misura in psicologia. Più tardi io confutai le sue idee sulla misura. Ma confutare le idee di un proprio Maestro è anche un modo per esprimere il proprio affetto. E per Aliotta conservai sempre molto affetto. Egli faceva lezione, e dopo aver saputo che in realtà io non ero uno studente suo, ma studente di matematica, ogni tanto mi interpellava, e rivolgendosi a me mi chiedeva: «Sentiamo ora che cosa ne dice il nostro matematico». Dai e dai, fini che prima del 31 dicembre, passai dal biennio di matematica alla facoltà di Filosofia. Direi che Aliotta ci rimase un po' male.
Diventavo infatti uno studente come tutti gli altri. Mentre a lui garbava di più avere un giovane studente di matematica con cui battagliare in aula.
Tra i professori della facoltà di Lettere di cui sentii l'influenza, oltre che Aliotta come ho detto, vi erano altri Maestri. Sopra tutto Ettore Romagnoli, col quale mi trovavo anche fuori dell'Università, perché frequentava la casa di un mio anziano prozio, Eugenio Musatti, libero docente in storia di Venezia, e sua moglie, la zia Giulia. Questi tenevano salotto e, frequentando la loro casa, mi trovavo con i miei stessi Professori. Fra i quali il grecista Romagnoli appunto. Egli era un po' il padrone della facoltà. C'era da chiamare un nuovo titolare di letteratura italiana, e nel clima antigermanico che si era formato in Italia dopo l'intervento, ci voleva, non un accademico erudito, ma un poeta: per valorizzare di fronte ai pedanti tedeschi la genialità italica. Romagnoli fini con lo scegliere Giovanni Bertacchi. Noi, studenti maschi (che tuttavia eravamo presenti in facoltà, come ho detto, una decina in tutto) non eravamo per nulla soddisfatti delle sue prime lezioni, dedicate a Leopardi, perché le lezioni avevano assunto il carattere di conferenze mondane, alle quali intervenivano per snobismo le dame della buona società padovana. Personalmente Bertacchi però era un uomo di alta statura morale: un fiero montanaro della Valtellina. Finimmo poi coll'amarlo, anche se come poeta lo giudicavamo un po' noioso, e come professore privo di una vera efficacia critica. Facemmo dunque pace, e andammo una domenica insieme in gita a piedi sui Colli Euganei. Fu il giorno della prima incursione aerea austriaca su Padova, e dall'alto dei Colli assistemmo allo spettacolo pirotecnico del bombardamento e della contraerea.
Tra noi c'era Angelo Sommer, studente anch'egli di lettere, che negli anni precedenti aveva abitato a Mestre e che aveva fatto con me, sullo stesso banco, tutto il ginnasio liceo Marco Foscarini di Venezia. Più tardi fummo presi da interessi diversi, ma io l'ho sempre considerato un carissimo compagno ed amico.
Durante l'anno accademico fui per qualche settimana a Torino, ospite di un altro compagno di liceo, e poi amico fraterno per tutta la vita, Nino Valeri. Era anch'egli studente di lettere e divenne negli anni successivi titolare di storia moderna nelle Università di Catania, di Trieste e di Roma. Feci allora amicizia con un gruppo di suoi compagni dell'Università di Torino, fra i quali Manlio Brosio e Poldo Piccardi. Mentre io ero a Torino, mio padre e mia madre erano andati in Svizzera ad un convegno per un tentativo di ricostituzione della Internazionale Socialista, sfasciatasi in seguito alla guerra. Conobbero allora Lenin e Trosky, e fecero particolare amicizia con Lunaciarski. A Torino io assistetti per la prima volta, nell'Istituto del professor Kiesow, a lezioni di psicologia sperimentale.
L'anno accademico passò rapidamente, e nell'estate del ‘16 fui chiamato sotto le armi. Benché avessi lasciato gli studi matematici, fui assegnato a Roma al 13° Reggimento artiglieria da campagna, come allievo ufficiale. Li mi accadde un fatto strano. Il mio comandante di batteria, Norberto Fiorilli, di pochi anni più anziano di me, era stato l'autore (con uno pseudonimo ottenuto anagrammando il proprio nome) di un libretto su Le geometrie non-euclidee. Questo libretto lo conoscevo e lo avevo studiato con grande interesse, perché trattava del problema dei fondamenti della geometria, e cioè di quello stesso problema che mi aveva portato inizialmente a studiare matematica. Questo lo seppi solo anni dopo. Il tenente Fiorilli non lo vidi più, dopo quel mio primo contatto. Ma benché io fossi soltanto una recluta ed egli fosse il mio comandante di batteria, ci fu una simpatia fra noi, come se ognuno dei due conoscesse il legame spirituale che ci univa.
Divenni aspirante ufficiale, dopo un breve periodo di addestramento a Torino, e nell'estate del '17 fui mandato al fronte. Presi dunque parte alla guerra: ma ebbi la fortuna di non essere coinvolto in situazioni eccessivamente drammatiche. Alla fine del conflitto, mi trovai a Trieste, da cui fui poi rimandato, dopo un paio di mesi, all'interno del paese, perché lettere da me spedite all'interno dell'Italia e setacciate dalla censura militare, risultarono sospette, per la simpatia che esprimevano per la rivoluzione russa, per Bela Kuhn e per gli spartachisti tedeschi.
Finalmente tornai a Padova per completare gli studi. Avrei voluto riprendere gli studi di matematica, ma Aliotta mi consigliò di finire prima il corso di filosofia. E cosi feci, presentando tuttavia per la tesi di laurea, un lavoro di logica della geometria: Le geometrie non euclidee e il problema della conoscenza. Un condensato dunque: dove entravano la mia passione per gli studi matematici, gli insegnamenti del mio tenente Fiorilli, e l'influenza di Aliotta. Per comporre la tesi impiegai un paio d'anni. Conobbi e studiai Hilbert e Betrand Russell, mi avvicinai alle opere di Vailati, e cominciai a pronunciare la parola, allora ignota nel nostro paese, epistemologia, teoria della scienza. Si, quella era la strada che dovevo imboccare.
Senonché un giorno (io ero ancora in divisa di ufficiale) arrivò a Padova un professore triestino, che aveva insegnato psicologia nell'Università di Graz, e che, divenuto cittadino italiano per l'annessione di Trieste, aveva perduto il proprio posto in Austria. Il Ministero dell'Istruzione italiano lo mandò a Padova ad insegnare psicologia. Ed egli fu nominato, senza concorso per meriti eccezionali, professore ordinario di psicologia nella nostra Università. Alla sua prima lezione eravamo due soli allievi presenti. Ma io fui affascinato dall'uomo. Sentivo parlare di problemi e di tecniche scientifiche in facoltà di filosofia, non da lontano come in seconda istanza, cosi come mi era accaduto con Aliotta, ma in modo diretto. Vittorio Benussi era uno scienziato esatto, uno sperimentalista, ancorché in un campo particolare, diverso da quello della matematica e della fisica. Uscii da quell'aula dopo aver sentito la sua lezione, nello squallido ambiente di due unici studenti. E dissi a me stesso: « Io sarò l'assistente di questo uomo ». Cosi fu.
Mi laureai in filosofia nel '22, con la tesi di cui ho detto, e fui nominato nel '23 assistente volontario del Laboratorio di psicologia sperimentale…


da Il mio mondo giovanile nell’antica Padova, in “Belfagor”, A.XLI n.1 gennaio 1986

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