26.11.13

Il cinema e la Storia. Profilo di Carlo Lizzani (di Manuel Tornato Frutos)

A novantuno anni, il maestro Carlo Lizzani decide di “staccare la chiave”, ponendo fine alla suo lungo e movimentato viaggio esistenziale, gettandosi nel vuoto, da una finestra aperta dell’appartamento in cui abitava, con la stessa inquietante lucidità giovane dell’altro grande vecchio del cinema italiano, Mario Monicelli, morto suicida poco meno di tre anni fa.
Ci lascia così uno dei più grandi intellettuali italiani, narratore della politica e della storia italiane, studioso appassionato che si è servito del cinema per conoscere e far conoscere il suo paese, la sua storia, ed il suo mondo, attraversando il Novecento, come scrittore di critica, attore, sceneggiatore, regista, e direttore di festival, costantemente impegnato in molteplici attività, praticando un cinema popolare eclettico e variegato – dal dramma storico, a quello politico, dalla commedia, al noir, allo spaghetti western – sempre con sincera partecipazione e trasporto viscerale.
Dalle giovanili esperienze critiche nella redazione della storica rivista “Cinema” alla pubblicazione della sua Storia del Cinema italiano, passando per l’impegno nelle associazioni di categoria, alla direzione della Mostra del Cinema di Venezia, fino all’instancabile lavoro di recupero della memoria del cinema italiano – attraverso le immagini delle sue videomonografie dedicate al Neorealismo – il prolifico regista romano era rimasto straordinariamente partecipe e combattivo, anche negli anni più recenti (nonostante l’età e le precarie condizioni di salute), in ogni sforzo di passaggio del testimone alle nuove generazioni. Da attore a storico, da regista a professore, Lizzani ha svolto il suo immenso ed enciclopedico lavoro, con la volontà pedagogica di tramandare il sapere. Essendo stato, di fatto, uno dei padri dell’istant movie e del docudrama, ha utilizzato la settima arte per raccontare l’Italia dal suo punto punto di vista, secondo i suoi ideali ed un’invidiabile coerenza intellettuale.
Il cineasta romano ha fatto propri alcuni elementi della lezione di Roberto Rossellini sulle possibilità del cinema e della televisione nell’uso pubblico della storia per interpretare, sul momento, fenomeni di trasformazione sociale  del “Belpaese”. Ecco perché non si può non analizzare interamente il suo intero corpus cinematografico, televisivo e saggistico per intraprendere quel “lungo viaggio nel secolo breve”. Ma di questo autore si devono sottolineare anche l’innata capacità di far recitare gli attori, la sua attenzione per i temi del corpo e della sessualità, le sue strutture narrative innovative e il suo gusto per il metalinguaggio.
Lizzani è stato un regista poliedrico, che all’epoca ha spiazzato la critica, ma che in virtù delle diverse attività svolte nella sua carriera, va considerato come lo straordinario depositario di un’esperienza enciclopedica. Come lui stesso confessò anni fa, ha attraversato molti generi diversi, perché la sua stessa vita  è stata una mescolanza di generi, e l’ha riprodotta con il suo cinema, senza accantonare gli aspetti che non erano in sintonia con alcuni momenti drammatici della sua esperienza personale o di quella collettiva.
Nato nel 1922, nel cuore del centro storico di Roma, cominciò il suo percorso di uomo di cinema infiltrandosi tra gli universitari del Cineguf, prima come critico, poi come attore (è tra i protagonisti de Il sole sorge ancora di Vergano nel 1946), quindi come sceneggiatore, collaborando con i padri fondatori del Neorealismo Italiano, Peppe De Santis, Roberto Rossellini e Alberto Lattuada, diventando testimone, accanto a loro, di esperienze fondamentali come la lavorazione dei  capolavori Germania Anno Zero e Riso amaro.
Debutta come regista nel 1950, con Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, proseguendo nel 1951 con Achtung! Banditi!, produzione di evidente matrice neorealistica, per il suo chiaro intento politico, dallo stile secco e antiretorico. Riproporrà il tema della Resistenza e dell’antifascismo anche in Cronache di poveri amanti (1954), celeberrima trascrizione del romanzo di Vasco Pratolini, ma la componente storico-politica rimarrà in generale una delle costanti della sua produzione. Infatti, affascinato dal romanzo della storia e dalla contemporaneità della cronaca, alterna film che scavano nell’animo di personaggi che hanno segnato il passato e, inevitabilmente anche il presente, tra i quali vanno ricordati: Il gobbo (1960), sulle vicende di un piccolo gangster di una borgata romana, come riflessione sugli effetti del conflitto mondiale appena finito – con la partecipazione di Pier Paolo Pasolini (la cui esperienza sul set gli risultò utile per la realizzazione dell’opera prima Accattone); L’oro di Roma (1961), sentita narrazione di un episodio avvenuto durante l’occupazione nazista; Il processo di Verona del 1963, sulla fine del fascismo (dove l’analisi storica sconfina nel dramma familiare).
Successivamente, realizzerà una serie di film-spunti di riflessione sociale, partendo dai fatti di una cronaca sempre più pervasa da un malessere diffuso, tra i quali: Svegliati e uccidi (Lutring) (1966), sulla vicenda del “solista del mitra”; Banditi a Milano del 1968, sulla banda Cavallero e la malavita milanese; Barbagia, La società del malessere (1969) sulle gesta di Graziano Mesina; o San Babila ore 20: un delitto inutile (1976); tutte pellicole che adottano le caratteristiche estetiche del noir, con una solida caratterizzazione dei personaggi, antieroi per eccellenza, all’interno delle metropoli italiane che si trasformavano in luoghi di violenza sociale o politica.
Non meno importanti da considerare sono i documentari che hanno puntellato la sua carriera, sin dagli esordi come Viaggio al sud (1949) e Modena, città dell’Emilia Rossa, passando per La Muraglia Cinese (1958) – lavorazione epica nella Cina maoista degli anni ’50, che costituì un interessante esperimento per il cinema italiano, pur con i suoi limiti dettati dall’ideologia, risultando essere il primo lungometraggio realizzato nella Cina di Mao da un regista occidentale – fino ad arrivare al lavoro collettivo Un mondo diverso è possibile, girato a Genova nei giorni del G8.   
Carlo Lizzani è sempre stato alla ricerca di un cinema popolare immediatamente percepibile. La sua funzione non fu soltanto quella di regista di legato ad eventi di cronaca, ma anche quella di attento osservatore del costume e dei fenomeni sociali in evoluzione: ne è una prova La vita agra (1964,) dal romanzo di Luciano Bianciardi, che rappresenta un’amara e lucida meditazione su quell’Italia in pieno boom economico, minata alle radici da un giovane intellettuale insignificante.
Nelle vesti di saggista di cinema ha realizzato tre edizioni di una Storia del Cinema italiano. Da cultore della settima arte, dal 1979 al 1982, ha diretto la Mostra del Cinema di Venezia, riportandola ai livelli dei grandi festival internazionali, dopo otto anni di pausa forzata.
Nel 1998 Lizzani ha pubblicato la raccolta di suoi scritti di diverso genere Attraverso il Novecento, in cui vengono narrati aneddoti sul mondo del cinema neorealista italiano, volendo riorganizzare la sua filmografia, secondo una sorta di ideale storia d’Italia in cui tutti i momenti salienti sono stati raccontati da lui.
Tra le sue ultime produzioni per il cinema si ricordano Cattiva (1991), ambientato nella Svizzera di inizio secolo, e Celluloide (1995) dedicato alle vicende relative alla lavorazione del film Roma Città Aperta, ed al rapporto tra Rossellini e Sergio Amidei. Negli ultimi anni, Lizzani ha lavorato soprattutto per la televisione, con serie storiche di grande successo come Nucleo Zero, sul terrorismo (ispirato dal romanzo di Luce D’Eramo),  Maria Josè, l’ultima regina (2002) o Le cinque giornate di Milano (2004).
Lizzani ha sempre svolto, accanto alla sua originale attività artistica, una funzione di stimolo e di riflessione continua sulla diffusione del cinema, credendo alle sue molteplici possibilità, dando spazio alle nuove generazioni della critica italiana, e favorendo quelle visioni che indagavano su nuovi e interessanti fenomeni culturali e artistici.


“Le Reti di Dedalus”, 2013

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