9.12.13

Colombo e sua moglie. Il detective che frantuma generi e regia (Gianni Canova)

Questo articolo sul tenente Colombo fu scritto e pubblicato all’inizio degli anni 80, prima che in Italia la serie passasse dalla Rai a Berlusconi e venisse ritrasmessa centinaia di volte senza tuttavia perdere un pubblico appassionato.
Canova sottolineava la radicalità della rottura con i canoni del genere e con le modalità tradizionali di produzione e individuava il carattere giocosamente “postmodernista” di quei telefilm prima ancora che il termine si affermasse con Lyotard e Jameson ne tratteggiasse gli elementi costitutivi di tecnica e di gusto: citazione, ricombinazione, nostalgia serializzata.
Nell’articolo c’è una curiosità: si parla di un episodio, l’unico, in cui compare la moglie del protagonista, interpretata da Angie Dickinson, resa famosa dal ruolo di donna poliziotto in un più antico e fortunato serial. Benché appassionatissimo del tenente e vizioso delle sue repliche, non ho mai visto io quel telefilm: ho l’impressione che dopo il primo passaggio lo abbiano fatto sparire per conservare efficacia al tormentone di una “signora Colombo” sempre citata e mai visibile. (S.L.L.)
Angie Dickinson police women (1975)

Il guinness dei primati (edizione 1981) lo cita come l'attore televisivo più pagato: dai 300.000 ai 350.000 dollari per ogni telefilm. Ma la tv non è la sola a corteggiarlo: per il cinema ha da poco terminato California dolls, l'ultimo film di Aldrich in cui fa il manager di due fascinosissime lottatrici.
Un occhio di vetro, una spalla più bassa dell'altra, un'andatura sgraziata e claudicante: Peter Falk sembra davvero incarnare l'altro volto del neo-divismo americano, quello che cerca di competere con l'erotismo dei nuovi sex-symbols maschili (William Hurt, Kurt Russe) trasformando la bruttezza e la goffaggine in elementi di seduzione. Guardatelo ad esempio nel serial Colombo, tutte le domeniche pomeriggio alle 13,30 sulla rete 2 della Rai. Trasandato, pasticcione, un laido trench bianco-sporco sulle spalle, per un'ora e mezza Falk invade letteralmente lo schermo col suo gesticolare nevrotico e impacciato: si gratta la fronte, agita le braccia, solleva l'indice, succhia sigari puzzolenti, strapazza matitine e blocchetti d'appunti, appare pateticamente a disagio in qualunque situazione.
Poi, d'improvviso, tira fuori le unghie, diventa freddo e micidiale ed esibisce geniali acrobazie logico-deduttive. Al dilagare delle saghe familiari tipo Dallas o La conquista del west e all'apologia del lavoro di gruppo degli ultimi serials, coi loro staff di medici e 1 loro studi di avvocati, Colombo contrappone la patetica presenza dell'eroe solitario, ricamando intorno al genere della Detective story una sorta di malinconico «come eravamo» Intriso di memorie cinefile e di nostalgie.
A prima vista il personaggio appare decisamente fuori moda, lavoro solo sui deltti molto soft che si consumano nei salotti dell'alta società californiana, si muove in intrighi sempre molto ripuliti e costruiti con garbo e con cortesia. Eppure, nonostante la patina retro, Colombo mette in atto alcune rotture radicali, sia nei confronti dei meccanismi tradizionali della detective story, sia rispetto alle pratiche produttive del serial televisivo. In primo luogo Colombo dilata al massimo il carattere ludico da sempre insito nella detective story cinematografica. Colombo annulla ogni tensione rispetto all'identità dell'assassino, facendocelo vederti chiaramente all'inizio di ogni episodio. Il cinema l'aveva già fatto, ma occasionalmente. Colombo trasforma invece questa iniziale rivelazione di identità in un dato seriale: fornisce regolarmente allo spettatore un sapere che il detective non possiede ancora e poi punta tutte le sue carte non più sulla scopetta del colpevole, ma sull'attesa che venga colmato lo scarto di informazioni verificatosi tra personaggio e spettatore. Il telefilm serializza insomma la propria tensione all'entropia, eccita il desiderio che anche l’altro (il goffo Colombo) conosca ciò che noi già conosciamo, produce piacere facendolo scaturire dalla socializzazione del sapere, dalla diffusione e dalla circolazione di informazioni. Ma c'è un secondo motivo che fa di Colombo un serial importante e radicale: la sua capacità di giocare al massacro con le regole del cinema, con la sua memoria, con le sue ingombranti presenze d'autore. In ogni episodio della serie mutano infatti l'autore del soggetto e quello della sceneggiatura, così come muta il responsabile della regia, senza che risultino vistose differenze tipologiche tra un episodio e l'altro. Colombo è sempre uguale a se stesso a prescindere dall'autore che ha inventato l'intreccio o dal regista che l'ha messo in scena. Il che significa che non è più l'autore a produrre un personaggio serializzato, ma è il personaggio dalle caratteristiche predeterminate a serializzare il lavoro degli autori, costringendoli ad omogeneizzare le loro tecniche produttive e ad adeguarle al sistema di attese e di udienze già affermato nel pubblico.
L'operazione è particolarmente interessante perché ad essa si prestano non solo giovani registi di matrice televisiva, ma anche i nomi come Cassavetes, autore di un paio di episodi passati quasi inosservati e dispersi in mezzo a quelli diretti a nomi meno conosciuti (Leo Penn, Howard Berk, Robert Douglas, Bernard L. Kowalski, James Frawley). C'è perfino chi giura di aver visto, nei titoli di coda di un episodio trasmesso tempo fa, il nome di Steve Spielberg alla regia. L'ipotesi è più che plausibile, vista l'eterogeneità di coloro che si sono divertiti a riprodurre la tipologia del personaggio di Falk.
Prendete ad esempio gli episodi mandati in onda dalla rai nelle ultime settimane: uno è firmato nientemeno che da Jonathan Demme (quello di Melvin and howard, con una Mary Steenburgen da oscar), un altro è di Ted Post (molta tv, ma ancne Nightkill, l’ultimo rum, con Robert Mitchum), in un altro anco¬ra la regia è addirittura di Ben Gazzara (Assassinio a bordo, trasmesso il 24 gennaio). Ma Gazzara non è l'unico attore a trasformarsi in regista del serial. Un caratterista come Patrick Mc Goohan (quello che faceva il direttore del carcere in Fuga da Alcatraz di Don Siegel) diventa per esempio protagonista in molti telefilm della serie e arriva addirittura a curare la regia dell'episodio Doppio gioco, trasmesso il 14 febbraio. E' un vero e proprio rimescolamento di ruoli e di funzioni, una beffarda dissoluzione di ogni seriosità produttiva, un gioco al camuffamento e all'occultamento. In queste condizioni la presenza dell'autore, ridotta ai minimi termini, gioca ad esprimersi attraverso segnali mascherati e crittogrammi segreti disseminati qua e là nella trama dei vari episodi. L'autore occulta se stesso così come un tempo occultava l'identità dell'assassino: mette in scena la propria assenza, la propria assoluta identità con tutti gli altri autori della serie, ed offre il tutto alle perversioni investigative dello spettatore. In uno degli ultimissimi episodi ad esempio il regista Nicholas Colasanto firma il film attribuendo ad alcuni personaggi il proprio nome anagrammato (Solecanto). In un altro episodio l'autore fa comparire per la prima e unica volta la moglie di Colombo (sempre nominata, ma perennemente assente in tutti gli altri episodi) e ne affida la parte nientemeno che ad Angie Dickinson, quasi a suggerire con questa presenza una precisa dichiarazione di «estetica».
Sono piccoli vezzi cinefili, che richiamano alla lontana le apparizioni camuffate di Hitchcock nei propri film. Ma anche questi vezzi, o questi residui di presenza d'autore, sono possibili ormai solo come citazioni, sberleffi, ricordi di ciò che il cinema è stato. Dopo aver concentrato e riciclato la durezza del cinema, con Colombo la tv ne serializza la nostalgia.


“il manifesto”, 28 febbraio 1982

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