30.12.13

Il cibo immaginario. Modernità alimentare, e oltre (Gianfranco Marrone)

Commento a una mostra romana che chiude, ahimé, il 6 gennaio, l’articolo che segue, di Marrone, propone un’ipotesi di periodizzazione condivisibile. La pubblicità è di certo il fattore trainante nella fase definita gastro-anomica, tipica del ventennio 1950-1970 oggetto dell’esibizione. Dopo, specialmente a partire dagli anni 80, arriva la gastromania, cioè la pervasività della gastronomia, di cui forse non riconosciamo gli attori principali e le connotazioni, essendovi tuttora immersi fino al collo e oltre. (S.L.L.)

Lo confesso: non avevo mai capito il carosello dell’olio Sasso, quello dove Mimmo Craig canticchia "la pancia non c’è più".  http://www.youtube.com/watch?v=ShLz75IulzE&list=PL_HR4gBuHXtU_HsaPOwXgssX9gZPkcrhF
.C’è un signore un po’ tonto che ha incubi strani. Sogna di incontrare una signorina di bella presenza che ha l’aria di starci. Insieme giocano a palla o con l’aquilone sulla riva del mare. Tutto molto romantico, grandi sorrisi e sottili ammiccamenti, con Morning Mood di Edvard Grieg a incanalare le reciproche effusioni. E con un finale da pagliacci, dato a che a causa del pancione lui perde l’equilibrio e cade. Al risveglio scopre che la pancia sta solo nel sogno perché a casa sua, grazie alla cameriera nera con uniforme d’ordinanza, si cucina con l’olio pubblicizzato. “La pancia non c’è più”, canta il tizio con un ritornello che, appunto, diverrà un tormentone mediatico. Ma resta un senso curioso d’imperfezione: si trattava d’un incubo? Tutto sembrava così bello, tenero, pulito. In fondo, lui alla fine cade, ma la ragazza non fugge. Lo adora anzi, forse proprio per la sua congenita goffaggine, per l’aria di impacciata sincerità che emana a ogni gesto, per quel suo essere soave, paciocco, amorevolmente comico.
A me quello spot ha sempre colpito per la sua palese incongruenza: perché lui è così contento d’essersi liberato d’un sogno che era tanto bello? L’olio Sasso non fa rimpinguare, d’accordo. Ma mica l’esser grassi era rappresentato come qualcosa di disdicevole. Anzi, nonostante il pancione, la signorina l’aveva cercato e voluto, stavano in un luogo fantastico, si amavano. Tornato alla realtà, eccolo sì magro e scattante, ma scapolone in un tinello piccoloborghese lindo e banale, governato da una specie di Mamy infida e petulante che lo rimprovera continuamente, dove il meglio che può accadere è recarsi canticchiando in ufficio, giorno dopo giorno, pranzando nei ristoranti dove si prepara da mangiare con l’olio che non sviluppa calorie di troppo. Sinceramente, non so che cosa è meglio, fra l’avere la pancia e la signorina avvenente o il fisico longilineo e la governante rompiscatole. Il ventre piatto, sembra dire questo spot, non è seducente, né per se stessi né per gli altri. Serve a star bene, a essere cioè socialmente utili: senza grassi in eccesso non si inciampa, non si vive da pagliacci… e si va contenti al lavoro. Il pancione invece, per quanto vissuto come sogno angoscioso, sta dal lato dell’eros e del piacere, della spensieratezza, della revêrie. In esso si pasce la leggerezza dell’essere.
Ora, visitando la mostra Il cibo immaginario. Pubblicità e immagini dell’Italia a tavola curata da Marco Panella (Roma, Palazzo delle Esposizioni, sino al 6 gennaio) ho avuto il satori: quel che veniva rappresentato in questo filmetto è un mondo alla rovescia, dove già vige l’ideologia funzionalista della dieta a tutti i costi che la modernità ci ha imposto e che comporta, più in generale, tutto un immaginario legato al cibo che ancora, nonostante le attuali gastromanie, ci portiamo dietro. In che cosa consiste questo immaginario? e quanto ha inciso sulle nostre vite (attraverso le nostre pance)? La mostra, per certi versi indirettamente, lo spiega molto bene. Ricostruendo la storia della pubblicità alimentare italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, una storia a suo modo gloriosa e in gran parte dimenticata, Panella ci fornisce uno spaccato della società italiana che dalla ricostruzione postbellica, attraverso il boom economico, arriva all’austerity.
È l’immagine di una società umile ma speranzosa, euforicamente in crescita sebbene fortemente legata ai valori tradizionali della famiglia, del risparmio, del decoro, della buona educazione, ma anche della mascolinità seduttrice, delle buone mogliettine che provano ad accontentare i mariti esigenti, dei frugoletti eterna speranza della nazione, delle signorine grandi firme e abbondanti curve. Trionfano le autostrade e i supermercati, la televisione, la diffusione minuziosa di tecnologie per tutti. Molti di questi annunci, prima ancora che darci un’idea del cibo consumato dalle famiglie italiane, ci restituiscono il senso della rapidità con cui, grazie alle apparecchiature elettriche, si trasformano le loro case.
L’arrivo in massa di aspirapolvere, lucidatrici e macchine per cucire, ma soprattutto di cucine a gas, frigoriferi, frullatori, tritatutto, ghiacciaie, pentole con doppio fondo, macinacaffè automatici, dispositivi per tirare la pasta e detersivi che uccidono lo sporco cambiano fortemente il lavoro della casalinga, rendendola sempre meno casalinga. Arrivano nuovi materiali, come il vetro da fuoco, la formica e, soprattutto, la plastica, che dicono di un universo al tempo stesso euforico e misterioso che in quegli stessi anni Roland Barthes additava come serbatoio inesauribile e filisteo dei miti d’oggi.
Ma sono soprattutto i nuovi alimenti che invadono gli scaffali della grande distribuzione, adeguatamente e ossessivamente pubblicizzati, a dar conto degli stili di vita degli italiani, dei loro valori, delle aspettative, dei desideri e delle vergogne di quei milioni di persone straordinariamente abbacinate dal mito del progresso. È come se tutto accadesse intorno a un’ideologia furbetta, frettolosa, sostanzialmente ipocrita, che inverte i nessi antropologici fra bisogno e piacere, ragioni e valori, funzioni e significati, riservando ai primi termini un favore che nella storia non hanno mai avuto. Così, non si mangia per gola ma per sfamarsi, per crescere sani e forti, agili e scattanti, carichi di vigore ed energia. Il gusto di cibi e bevande appare secondario rispetto alla nutrizione, alla salute, all’economia domestica, all’eros.
Queste pubblicità lo ripetono a più non posso, e con loro gli alimenti, pensati già a monte non come oggetti del desiderio ma come soluzioni a problemi, ora di chi mangia, ora di chi cucina. L’esercito agguerritissimo del cibo industriale (dal caffè in polvere alle bustine del tè, dai formaggini spalmabili alle salse pronte, dalla camomilla solubile ai pacchi di biscotti farciti, dalla frutta sciroppata ai sofficini surgelati, dai gelati confezionati alle caramelle col buco, dal latte condensato alla carne in scatola, dall’acqua minerale alle birre in serie, dai salumi già affettati allo yogurt in barattolo, dalla maionese in tubetto alle bevande che frizzano…) ha bisogno, per esser accettato, di motivazioni forti che giustifichino, silenziosamente e definitivamente, la progressiva perdita dei sapori, dei rituali legati alla tavola, dei valori connessi al territorio, del senso di appartenenza fornito dalle coltivazioni locali. Ed ecco defluire proposte commerciali al tempo stesso seriose ed enfatiche come le caramelle che dissetano senza bere, l’amaro per digerire, il liquore contro il logorio della vita moderna, la pastina glutinata che rende i bimbi più intelligenti, l’aperitivo radioattivo (?!) che allunga la vita, le chewing gum per pulire i denti, i cioccolatini al caffè per una carica di energia, l’ovomaltina che dà forza, le comode merendine per la scuola, gli alimenti al plasmon che rendono facile la scala della vita, le nutrientissime caramelle al miele, l’acqua minerale che mantiene giovani, il latte per la purezza della carnagione…
Ma non è finita, c’è anche tutto il campo della seduzione (caramella moretta, grappa che piace alle signore, birra biondissima che accarezza dolcemente il palato) o della distinzione sociale (whisky per intenditori, drink di classe, cocktail dei miliardari, grappa da veri conoscitori), perfino tocchi di psicologia (da cui il geniale “ramazzottimista”).
È tutto uno scorrere di ingegnosità (come l’idrolitina per rendere frizzante l’acqua del rubinetto) che apre la strada senza ritorno a scatolette, preparati, surgelati, surrogati, imbottigliati, affettati. E domina il senso della velocità: bisogna far presto a preparare il risotto (precotto), a cuocere il ragù (in scatola), a fare il brodo (col dado), a predisporre il sugo (con la pentola a pressione), a lavare i piatti (per non diventare schiave), a rigovernare la casa (con l’aspirapolvere).
Atteggiamenti che inaugurano, dopo l’autarchico ventennio fascista, un altro e diverso ventennio, meno duro ma molto più resistente, dove a dominare è la cosiddetta gastro-anomia, ossia la perdita del senso del cibo, lo smarrimento del valore alchemico della cucina, l’indifferenza per la socializzazione conviviale. Si mangia, appunto, per ricaricarsi; si cucina per dovere casalingo: in gran fretta, per togliersi il pensiero, e poi subito spaparanzati davanti alla tv o a passeggio con le amiche nel grande magazzino di quartiere.
Dagli anni Ottanta, è noto, la tendenza si invertirà. Oggi governa la ricerca spasmodica del gusto a tutti i livelli, la gastronomia di tutti i tipi, con un immaginario pressoché opposto, a cui attinge a piene mani l’attuale comunicazione di marca. I segni del cibo e i linguaggi della pubblicità sono molto diversi. Il culto della buona tavola sta pervadendo uomini e cose. Ma siamo certi che l’ideologia moderna dell’alimentazione sia del tutto tramontata? Continuiamo a sognarci beati col pancione e ci risvegliamo col ventre piatto. Ma siamo felici?

Da “Doppio zero” (http://doppiozero.com/ ), 27 dicembre 2013

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