22.12.13

La morte di Antonio Banfi (Rossana Rossanda)

Traggo dall’autobiografia di Rossanda questa paginetta sulla morte di Banfi, il filosofo razionalista con simpatie marxiste che era stato all’Università suo maestro della giovane comunista. Banfi, che fu eletto senatore per il Pci nel 1948 e 1953, ebbe come moglie Daria Malaguzzi Valeri, la contessa di cui si fa cenno. Il Miglioli qui citato è il sindacalista cremonese, l’agitatore contadino di fede cattolica, che non volle stare nel contenitore democristiano anche per il radicale pacifismo che lo animava. Rossanda ricorre ad eufemismi, ma può essere motivo di riflessione il fatto che Banfi, come del resto Concetto Marchesi, fosse uno “stalinista” anche dopo il XX Congresso. (S.L.L.)
Antonio Banfi 
Nel luglio del 1957 Antonio Banfi morì. Morì per caso, per incuria, per una stupida infezione mentre aveva ripreso in mano tutta la sua produzione e la selezionava e preparava la ripresa di “Studi filosofici”, chiusi nel 1949 per le strida del Pcf. I tempi erano cambiati. Non lo sentii dolersi mai, era tra quelli che non giudicavano un fallimento quel che ancora non si chiamava “socialismo reale” e non saprò mai quel che ne avrebbe un giorno scritto - aveva molto amato l'immensa Cina e le sue forme, vi tornava, era contentissimo di essere stato nominato cittadino di Shanghai. Ogni fine settimana salendo a Milano dal Senato si infilava nel suo collegio nel cremonese, l'estremo oriente della Lombardia, fra piane nebbiose e prima industria e contadini e contadini, comizi e frecciate con i socialisti, curiosità per il vecchio Miglioli, inclassificabile residuo di ieri o prodotto di oggi, perché anche le campagne erano in sorda ebollizione. Per Banfi la storia non aveva un fine né era un residuo, era il muoversi sorprendente del reale e lui, che aveva le radici ancora nella Germania di Weimar, conosceva per filo e per segno la vena lombarda, dalla quale estraeva per noi, nelle poche cene calme delle feste, le canzoni dei soldati poveri e della mala - «E fin che fiocca /a 'sta manera / e la lingera, e la lingera / trionferà». La lingera, la malavita, i cavalieri della luna della campagna mantovana sulle rive del Mincio. Tutto quel che era il variegato popolo incantava quella generazione, i cui padri lo avevano ignorato. La malattia lo disidratò, sgomentando la consorte che era stata crocerossina nella Prima guerra mondiale, con gli antibiotici non aveva dimestichezza e degli ospedali non si fidava - in breve, mia sorella che era ormai medico e io dovemmo irrompere in casa con una colonna di flebo, Mimma scovò un letto in una clinica protetta da grandi cedri, dove sfinito e senza lamentarsi terminò i suoi giorni. Milano cominciò a sfilare davanti alla sua porta quando fu spento, e a notte la piccola tremenda contessa che aveva retto tutte le condoglianze non permise, in nome dei princìpi comunisti, che lo deponessero nella cappella. Lo deposero nel garage. Solo, il volto pacificato come è della prima morte, nel caldo mortale aspettai con lui l'alba allontanandogli dal viso le zanzare con l'acqua di colonia. In quei giorni mi aveva detto poche cose. Dei suoi progetti e private, come si fa quando si sa che è finita. Cercai di credere che cessasse di vivere quando l'ultima parte della sua vita ridiventava problematica. Ma era un'illazione indebita, non era stanco, avrebbe voluto ricominciare. Due giorni dopo, ai suoi funerali c'erano senato e comune e partito e università e allievi e tutta Milano, e un mare di contadini in bicicletta venuti dal cremonese, un mare mantellato e silenzioso che colmò le grandi strade e rifluì la sera verso le campagne.

da La ragazza del secolo scorso, Einaudi, 2005

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