13.1.14

Sergio Staino. Infanzia di un disegnatore

Io vengo da una famiglia povera dal punto di vista culturale. Tutt'e due le famiglie — quella di mia madre e quella di mio padre — sono di estrazione contadina. Quella di mia madre toscana, quella di mio padre lucana. Mio padre prese la licenza elementare quando già era arruolato nell'arma dei carabinieri. Da lui ho avuto un unico libro che aveva leggiucchiato forse per gli esami di licenza elementare; era I Promessi Sposi nell'edizione Salani illustrata da Carlo Chiostri. Da piccolo me lo son letto e guardato più volte. Mia madre aveva pure lei qualche libro: racconti, un libro di Delly, una Primula rossa, qualche romanzo rosa, e poi un librettino della "Biblioteca dei miei ragazzi", Otto giorni in una soffitta. Non so come e da dove mi è venuto, ma ho sempre avuto un grande amore per i libri, che erano a casa mia una cosa rara e preziosa.
Mi ricordo che quando avevo sette-otto anni sono stato ammalato. Dovevo stare a letto per qualche giorno. Mio padre mi chiese se volevo un regalino, qualcosa, per passare il tempo. E io gli chiesi un libro. E aspettai, lui usciva la mattina presto e tornava la sera tardi, aspettai con emozione enorme l'arrivo di babbo. Chissà quale libro mi avrebbe portato... Invece tornò non con un libro, ma con una cosa strana che non avevo mai visto prima, era un giornalino di Walt Disney, un Albo d'oro della Mondadori. E piansi disperatamente. Mio padre rimase malissimo: «Ma mi avevano detto che ai bambini piacciono di più i fumetti», cercava di giustificarsi e di consolarmi. E io: «No, volevo un libro, un libro; che cos'è questa cosa qui con tutti disegnini». Poi mi misi a leggerlo e mi piacque, mi affascinò enormemente. Scoprii il fumetto. E da lì, tutte le settimane compravo "Topolino". Con i fumetti ho provato delle emozioni bellissime; emozioni che pensavo si potessero avere solo con la lettura dei libri.
A casa mia non hanno mai fatto problemi per i fumetti. Per cui, quando è stato possibile ho letto di tutto. Almeno fino ai quindici-sedici anni il rapporto con la carta stampata è stato del tutto casuale, era il puro gusto di leggere cose scritte, qualunque cosa fosse. Perché c'era questa carenza di libri intorno a me. Ricordo che andai qualche giorno ospite da una zia in campagna e c'era un ragazzo che aveva tutta la raccolta di "Capitan Miki", erano dei fumetti a strisce, piccoli. Passai ore a leggerli tutti. Poi andavo per le vacanze al mare a Porto S. Giorgio in una casa con dei ragazzi che avevano i libri di Salgari. Passai tutto il mese di agosto a leggere, leggevo un romanzo al giorno. Incredibile a pensarci ora. Ho letto tutto Salgari o quasi, le storie dei pirati, le storie indiane... era meraviglioso. Normalmente in ogni casa che frequentavo c'erano pochi libri. Li chiedevo in prestito: racconti e romanzi d'avventura, le riduzioni del "Reader's Digest"... Difficile ricordarli tutti. Uno che ricordo perché mi è piaciuto moltissimo ed era inquietante anche per le illustrazioni fu Tizzoncino ed altre storie di Luigi Capuana. Un sadismo a ripensarci oggi in quelle fiabe, terribile! Non l'ho più rivisto questo libro. Erano illustrazioni a due colori, delle silhouette nere su dei fondi freddissimi verdi, rosa. Storie di amori tragici, morti, donne traditrici.
Leggevo qualunque cosa. Allora nelle case — siamo negli anni cinquanta - si trovavano spesso dei libri di un certo Van Loon, erano volumetti di divulgazione parascientifica, per esempio I più grandi terremoti della storia e cose del genere, divulgazione terra terra.
Una cosa certa — a ripensarci oggi a distanza di anni con distacco — è che io ho avuto verso la cultura un amore, un'ammirazione sfrenata. Avevo interessi, ascoltavo, leggevo. E a scuola questa mia voglia di imparare non fu colta per niente. Dico alle scuole medie. Alle elementari sì. Qui, anzi, fu colta anche troppo. In quarta elementare mi capitò una maestra di prima nomina, molto entusiasta — si chiamava Leda Lucci —, anche molto carina, rossa di capelli, giovanissima. Mi considerava un piccolo genio...

Postilla
Il testo è costruito con le risposte di un’intervista pubblicata su “folio”, una rivista della Nuova Italia che promuoveva lo studio della narrativa d’ogni tipo nella scuola, nel febbraio 1990. 


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