26.2.14

Chi era davvero Giovanna d’Arco? (Isabella Bossi Fedrigotti)

La cattura di Giovanna d'Arco
Chi era davvero Giovanna d’Arco?
Una contadina guerriera, come racconta il mito, che ruppe l’assedio inglese davanti a Orléans facilitando la salita al trono di Francia del flebile Carlo di Valois, il quale poi non mosse un dito per salvarla dal rogo cui la condannò il terribile Cauchon, vescovo filoinglese di Beauvais?
Oppure, come suggerisce un filone storiografico, una bastarda di casa reale manovrata dalla corte francese tra i vari fronti della guerra dei cento anni e sfuggita al rogo grazie a una controfigura sacrificata al suo posto?
Per scrivere il suo nuovissimo libro, Il fuoco di Jeanne (Guanda), Marta Morazzoni si è mossa alla ricerca della pulzella, conscia, già alla partenza, di non poter trovare una vera verità. Quel «si è mossa» è da prendere alla lettera, perché, come uno scrupoloso inviato speciale, l’autrice è andata, più e più volte, sui luoghi «dove si sono svolti i fatti». Che non sono soltanto Domrémy, dove Giovanna nacque nel 1412, Orléans, la città che liberò dall’assedio e Rouen, luogo del rogo finale, ma tutte le altre località nelle quali la ragazza combatté, e cioè Jargeau, Meung sur Loire, Beaugency, Patay e Compiegne. Cui si aggiungono un’infinità di chiese e musei sparsi in tutta la Francia che conservano suoi ritratti e cimeli; senza escludere il castello di Jaulny, oggi trasformato in bed and breakfast, al tempo dimora di Robert d’Armoise, marito di quella Jeanne d’Arc che, secondo l’altro mito, nacque di sangue reale e si salvò dal fuoco.
Ma la ricerca comprende diversi luoghi ancora, tutti quelli, per esempio, che, in qualche modo, stanno in relazione con Carlo di Valois, lo schivo, tentennante sovrano miracolato dall’ardita giovane guerriera.
La ricerca, che porta l’autrice attraverso il cuore della Francia, oscilla tra il diario di viaggio, l’analisi storica, la riflessione filosofica e, naturalmente, la narrazione letteraria, poetica, che unifica il tutto e trasforma il libro dall’identità a prima vista incerta in lettura appassionante sulle tracce del mito. Una intellettualissima guida alle terre di Giovanna d’Arco si potrebbe, in fondo, definire il libro, e peccato - vien da pensare - che i grandi scrittori non si dedichino più spesso a suggerire la strada al viaggiatore.
Assieme al mito, meglio, alle tracce più o meno marcate che il mito ha lasciato, la lettura de Il fuoco di Jeanne rivela, come del resto quasi sempre succede, anche l’autore. Molto dell’autore, anzi, dell’autrice, in questo caso: perché Marta Morazzoni entra nel racconto in prima persona, fa sentire la sua voce e le sue riflessioni, parla, annota, descrive il viaggio, permettendo al lettore di partecipare alla sua ricerca. Ricerca che culmina, simbolicamente significando la sua sostanziale impossibilità, nella visita alla Bibliothèque Nationale in rue Richelieu a Parigi, dove sono conservati gli atti e le testimonianze del processo che condannò al rogo la pulzella. Sfogliare il prezioso volume con gli antichi documenti, solennemente portato in superficie dal montacarichi, sotto lo sguardo irritato dell’altero bibliotecario, già non deve essere stato facile; decisamente frustrante - confessa l’autrice - dover constatare di non riuscire a decifrare nemmeno una parola dell’antica grafia gotica, facendo comunque finta, per non dare troppa soddisfazione all’altezzoso custode dei luoghi, di soffermarsi su alcune pagine con particolare interesse.
Se non gli atti del processo, la scrittrice ha però letto un’infinità di parole riguardanti la santa protettrice di Francia: su iscrizioni, epigrafi, epitaffi e, naturalmente dentro gli innumerevoli libri consultati, di storici di tutte le epoche che le hanno dedicato i loro studi. E quel che inevitabilmente ella è costretta a cogliere da tutto il materiale esaminato è che non ci può in alcun modo essere un finale felice della storia; che la vicenda è comunque tristissima, perversa, anche se la pulzella in realtà fosse stata una principessa di sangue reale, con parenti importanti che in extremis la salvarono dal rogo.
In tal caso, infatti, un’altra donna o ragazza, un’altra «strega» fu sacrificata al suo posto, sfortunatissima controfigura, povera sventurata della quale non rimane neppure la memoria di un viso, di un nome.

Corriere della Sera, 18 gennaio 2014

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