26.2.14

In Maremma. Quando la cucina non buttava via nulla (Pietro Citati)

Questa, di Pietro Citati, mi è sembrata una pagina molto ispirata, non solo sulla Maremma, ma su una civiltà contadina, di cui quelli della mia generazione hanno conosciuto i bagliori del tramonto e che è poi quasi scomparsa.
Forse una nuova generazione di contadini si prepara. Forse essa, cercandone le orme, cercherà di recuperare quel che potrà da quel grande patrimonio di sapienza, tecnica ed etica, che fu la civiltà contadina in Italia. Chi vivrà vedrà. Intanto la bella e semplice prosa di questa pagina di Citati ecciterà la memoria di noi più vecchi e forse la curiosità di qualche giovane, anche per la ricetta dell’acqua cotta. (S.L.L.)
Anni 50 del Novecento. Massaia dell'Italia centrale
Fino a venticinque anni, ho passato le mie estati in un paese minimo: la Liguria occidentale. Tutto vi era minimo: le spiagge, gli scogli, gli uliveti, i pini sulle colline, le mimose, le serre di pomodori e di garofani, di carciofi e di orchidee, i paesi medioevali, i muretti a secco, i mazzi di lavanda e di rosmarino; e una mente egualmente molecolare vedeva nel mondo una moltitudine di forme quasi invisibili.
Dopo il 1955, passai le estati in Maremma: nei poderi immensi, di cinquecento o mille ettari, e poi nelle colline che salivano lentamente verso Siena. Non avevo mai conosciuto un paesaggio simile. Non ero abituato alle grandi proporzioni, e da principio esse mi fecero quasi terrore. Qui c'era spazio: un enorme spazio; i maremmani costruirono poco, agirono poco, comprendendo che la massima qualità dell'uomo, mentre s'affaccia al mondo, deve essere la discrezione. Non agire: lasciare che qualcosa accada, perché, comunque, accadrà. Non farsi vedere.
Guidavi la macchina per ottanta chilometri, e non incontravi nemmeno un essere umano: solo grandi boschi di lecci, di castagni e di sughere, foreste alla Altdorfer, miniere abbandonate, un piccolo lago azzurro e verde come in un quadro di Poussin, una chiesa cistercense scoperchiata, una chiesa di onice, una cappella quasi micenea, un paese con le torri e le case bianche di Giotto. E poi, all'improvviso, ai piedi di un castagno secolare, vedevi un alto pianoro: verdissimo, circondato da boschi. Pensavi all'«umile Italia» di Virgilio. Nulla era più antico di questo luogo: persino i confini tra i campi dovevano risalire al quarto secolo; e poi ti accorgevi che proprio qui, milleduecento anni fa, si accampò l'esercito di Carlo Magno, che scendeva verso Roma.
La fattoria della Maremma era un microcosmo. Vi si coltivava il grano, il granturco, l'ulivo, la vigna, la frutta: le grandi stalle nascondevano buoi, mucche e maiali. Il contadino maremmano era una specie di uomo universale: sapeva fare di tutto: conosceva ogni cultura; secondo le ore della giornata, era contadino, frutticultore, giardiniere, boscaiolo, idraulico, elettricista, fabbro, muratore, falegname. Quale deposito di sapienza agricola e umana, quale passione per la campagna, quale attenzione, quale scrupolo si siano raccolti nelle fattorie, oggi è quasi impossibile immaginare. La sapienza nel prevedere, l'amore per la realtà, l'attenzione per ogni particolare, lo scrupolo nel non sprecare nulla, la precisione dello sguardo, la fermezza delle linee, una fantasia tanto più ricca quanto più segreta, una passione che nulla limitava, una specie di nobile dilettantismo... Sembrava, a volte, che dalla precisione di una potatura dipendesse la salvezza della terra.
Era un mondo tragico, chiuso, concentratissimo: vi si raccoglieva una quasi intollerabile violenza di affetti, uno spaventoso senso del possesso, un odio verso ciò che era straniero. Non c'era un attimo di distensione. Pareva che un albero che non portasse un beneficio immediato, un gatto o un cane che si aggirassero liberamente nel giardino o nell' aia fossero nemici che bisognava abbattere a ogni costo. Fino a sessant'anni fa, la Maremma era una regione povera: talvolta poverissima. La festa del cibo avveniva a dicembre o a gennaio, quando si uccideva il maiale: era una specie di raptus dionisiaco, ma spesso un solo maiale apparteneva a più famiglie e doveva durare per un anno intero. Il simbolo della civiltà culinaria maremmana era invece una specie di minestra, che aveva un nome bellissimo: l'acqua cotta. Era il cibo dei poveri: non costava quasi niente: veniva fatta d'avanzi e di erbe trovate nei prati; e il suo suono giocoso faceva capire che non si trattava nemmeno di un cibo, ma di uno scherzo con l'acqua del mondo. La massaia preparava il pane una volta la settimana: lo custodiva in una grande madia; e, alla fine della settimana, il pane era secco, quasi raffermo. La mattina del settimo giorno la massaia raccoglieva le verdure e le erbe: soprattutto cipolla, sedano, radicchio di campo. Un poco d'olio li inumidiva. Poi c'era l'uovo: non costava molto, giacché qualche gallina razzolava sempre nell'orto dietro casa; eppure un uovo doveva bastare per sei porzioni. A questo punto, la massaia impugnava la padella, e soffriggeva la cipolla, il sedano e il radicchio. Pomodoro e acqua riempivano la padella fino all'orlo. Sotto la sorveglianza degli occhi svagati delle ragazze di casa, tutto bolliva e ribolliva per circa un'ora. Restava un ultimo gesto. La massaia tagliava meticolosamente il pane secco o raffermo in fette sottili: le disponeva nella zuppiera; e rovesciava cipolla, sedano, radicchio di campo, sale, pomodoro, acqua caldissima sopra le magre fette di pane. Raccomando l'acqua cotta a tutti coloro che coltivino le infinite forme della minestra. Non ne conosco una migliore: il giorno dopo, o due giorni dopo, è ancora più umida, sottile e profumata.


Corriere della Sera, 28 agosto 2011

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