5.2.14

La borghesia mafiosa e il sicilianismo (di Giuseppe Carlo Marino)

Che il “sicilianismo” fosse l’ideologia della “borghesia mafiosa” siciliana fu un’argomentata intuizione di Mario Mineo, quando questa categoria inventò, già negli anni Sessanta. Ancor prima Leonardo Sciascia aveva fornito una plastica rappresentazione delle origini del “sicilianismo” nel suo magnifico Consiglio d’EgittoGiuseppe Carlo Marino è stato infine lo storico che più accuratamente ha studiato questa relazione nel suo costituirsi e nel suo divenire a cominciare da L’ideologia sicilianista (Flaccovio, 1988), passando per L’opposisizione mafiosa (Flaccovio, 1996), per giungere alla Storia della mafia (Newton Compton, 1998), la cui ultima edizione riveduta e aggiornata è stata pubblicata nel 2013. 
A Marino si deve l’utilizzazione della categoria gramsciana di “egemonia” come strumento di interpretazione del fenomeno mafioso. In questa luce questo cessa di essere oggetto di “storia criminale” e diventa una chiave della storia politica e sociale della Sicilia. 
Di Marino è uscito nel 2011 per i Tascabili Bompiani Globalmafia - Manifesto per una internazionale antimafiosa, un libro che avrebbe meritato molta più attenzione da parte della sinistra culturale e politica e dello stesso associazionismo antimafioso. Il libro, composito (contiene un ampio contributo di Antonio Ingroia che – al tempo – era un magistrato antimafia di prima linea e importanti appendici di documentazione), ha come base un saggio storico-teorico sulla mafia globalizzata, una verifica di come dalla Sicilia Cosa nostra espanda nel mondo la sua presenza criminale, di come in questo percorso si incontri con altre “mafie”, che sono anch’esse in molti casi una “forma d’egemonia”, di come l’accumulazione mafiosa condizioni sempre più fortemente l’economia e la finanza internazionale, componente fondamentale di un potere che gli Stati e le organizzazioni interstatuali non sanno o non vogliono controllare. Il lavoro di Marino parte dalla Sicilia e contiene alcune pagine in cui lo studioso efficacemente sintetizza le acquisizioni dei suoi studi precedenti su sicilianismo e borghesia mafiosa. Il termine “sicilianismo” non c’è, ma esso vi appare compiutamente definito.(S.L.L.)

[…] La mafia non è venuta dal popolo siciliano ma dai suoi indigeni oppressori. Non consiste in un mero fenomeno di criminalità più o meno organizzata; ma in un'originale prassi del potere (ben visibile e analizzabile nelle sue forme e nelle sue dinamiche) con la quale i ceti dominanti hanno fomentato e alimentato, nel popolo, la moltiplicazione di un illegalismo diffuso, funzionale alla salvaguardia dei loro privati interessi e privilegi.
Ben lontani - come già aveva rilevato a fine Settecento il grande storico Rosario Gregorio - da una convinta condivisione del diritto pubblico e quindi di solito ostili a ogni ipotesi di statualità, i ceti dominanti siciliani raramente hanno espresso dal loro seno individualità innovatrici e durature correnti progressiste. Adusi a una valorizzazione estrema, persino a prescindere e al di là dei vincoli imposti dalle leggi, delle pretese individuali e di clan per la conquista e la conservazione della "roba" (un atteggiamento che potrebbe persino dirsi anarcoide ed "eversivo", seppure temperato da una rituale riproduzione di comportamenti ancorati a schemi tradizionalisti di vita sociale considerati intoccabili e quasi fuori e al di là del tempo), hanno elaborato e alimentato una sorta di religione del conservatorismo, di cui c'è ampia traccia nelle rappresentazioni letterarie, da Capuana, Verga e Pirandello a Tornasi di Lampedusa. E con la giustificazione ideologica di una siffatta "religione di classe" che sempre loro, i ceti dominanti, hanno coltivato l'astuta presunzione di rappresentare in toto, per una sorta di investitura storica fondata sulle tradizioni, i cosiddetti diritti e valori della cosiddetta "nazione siciliana". Ed è stata proprio tale presunzione l'anima del loro tenace impegno a difesa di privilegi invocati anche a nome del popolo, sempre con le arti dell'astuzia, senza peraltro escludere che l'opposizione intransigente a ogni potere statale che non si fosse mostrato condiscendente nei loro confronti potesse, all'occorrenza, sfociare nella violenza aperta delle strumentali rivolte popolari da essi stessi, come si è già detto, fomentate e dirette.
Mai propensi a cedere quote benché minime del loro potere su terre e uomini allo Stato, essi hanno piuttosto evidenziato la tendenza ad avallare e a fomentare un astuto illegalismo, nelle forme di volta in volta utili ad assicurare che ogni Stato che fosse riuscito a costituirsi e a tentare di strutturarsi nell'isola potesse essere efficacemente paralizzato e costretto a sottomettersi alle "ragioni" private ovvero a un sistema di privilegi ritenuto caratteristicamente siciliano e rivendicato come di per sé legittimato da una sorta di intangibile diritto naturale alla diversità.
Tale ceto di potenti - costituito in vari tempi da latifondisti ("baroni"), e da affittuari di latifondi (grandi "gabelloti"), regi intendenti e burocrati di rango, politicanti, preti e monsignori, notai, azzeccagarbugli, notabili e paglietta, evolutosi nel Novecento, con crescente evidenza rispetto al passato nella cosiddetta "borghesia mafiosa" - non ha mai accettato benevolmente altra legge se non quella funzionale ai suoi interessi.
Ceto, pertanto, sempre diffidente dello Stato, di qualsiasi Stato, esso ha conseguito e mantenuto un potere sociale nell'isola affidato a un particolare metodo bizantino di confronto-ricatto con i poteri pubblici: il metodo di un' "ubbidienza condizionata", nel senso che condizione ritenuta necessaria per ubbidire sarebbe stata ogni volta la disponibilità dei poteri statuali a governare il meno possibile la Sicilia, ovvero a non ingerirsi negli intrighi degli "affari" e dei misteri siciliani, a non attentare alle cosiddette "libertà" dei cosiddetti "siciliani" e a lasciarsi adulare e strumentalizzare ogni volta che l'appello alla legge risultasse ai potenti dell'isola concretamente più utile e conforme a tali "libertà" e agli "interessi siciliani" di qualsiasi manifestazione di ostilità o di aperta opposizione.
Un ceto di "gattopardi" cinici ed estraniati dal tempo storico, convinti di essere degli dei, così lo definiva con ben comprensibile orgoglio di appartenenza un loro coltissimo esponente, il principe Tornasi di Lampedusa. Meglio sarebbe dire, un ceto di servi-padroni, data la sua tendenza a una prassi astuta e untuosa del servire per meglio esercitare e difendere un pacifico dominio sull'isola e sul suo popolo: vigilare sulle forme e sui ritmi della vita sociale, sì da garantirne una costante riproduzione senza scosse; addolcire le sofferenze dei poveri e degli oppressi con un'offerta di sonno collettivo, inducendo una dolce passività conforme a un andamento delle cose descritto e contemplato come ineluttabile; ma con tutte le arti di una sofisticata vocazione al potere da mettere a profitto con tenacia circuendo, al fine di renderli domestici e inoffensivi, i poteri statali, salvo a reagire duramente con mobilitazioni separatistiche e richieste di indipendenza ogni volta che il pacifico dominio fosse seriamente minacciato da una qualche volontà statuale di non accondiscendere all'esautorazione o da sue temute inefficienze o esitazioni nell'uso della forza repressiva dinanzi a impreviste e incontrollabili rivolte popolari o a movimenti progressisti comunque pericolosi per la tenuta dei privilegi.
Così avvenne, per esempio, già in età preunitaria, con speciale evidenza nel 1820, contro i rivoluzionari napoletani che avevano conquistato una Costituzione di cui si temevano gli effetti liberali sui privilegi siciliani. Così, in seguito, appena all'indomani dell'Unità, nel 1866, strumentalizzando i disagi delle plebi e aizzandole contro le rigidità del nuovo potere dei "piemontesi" intenzionato, con evidenti lacune quanto alla conoscenza del contesto siciliano, a imporre un'immediata estensione all'isola degli ordinamenti dello Stato liberale; così, a fine Ottocento, contro il movimento popolare dei Fasci e ottenendone la violenta repressione da parte del governo retto dal siciliano Francesco Crispi; così, nei primi anni venti del Novecento, contro i contadini tornati dalla guerra che occupavano i latifondi, presto adattandosi ad assumere come propria, a difesa dei beni e dei privilegi, la salvifica "legalità" dell'ordine fascista; così nel secondo dopoguerra, con il separatismo rilanciato contro il "vento del Nord" e i governi di unità antifascista nei quali i comunisti e i socialisti stavano avviando, per poi animarle e dirigerle, le lotte contadine per la riforma agraria.

da Giuseppe Carlo Marino, Globalmafia, Bompiani 2011

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