26.2.14

Omaggio a Elio Vittorini (Bo, Crovi, Ferrata, Fortini)

Elio Vittorini con gatto

Dibattito radiofonico per il terzo programma RAI fra Carlo Bo, Raffaele Crovi, Giansiro Ferrata, Franco Fortini, 1966,
poi nella rivista “Terzo Programma”, 3, luglio-settembre 1966

BO
Alla notizia della morte di Vittorini tutta la cultura italiana e non soltanto italiana, ma anche quella francese – ha reagito in modo particolare. E questo perché Vittorini era, se possiamo dire così, una creatura di eccezione. Non è stato soltanto uno scrittore di grandissimo ingegno, come ne compaiono raramente in un secolo, ma egli è stato proprio per la gentilezza, per la particolarità della sua natura, una specie di guida nel senso buono; è stato una guida attiva. E sin dai primi anni della sua apparizione nella letteratura, vale a dire dagli anni fiorentini, il Vittorini ha esercitato una specie di fascino sui giovani e su quelli che erano, anzi, più vecchi di lui; possiamo citare ad esempio Montale, Loria e tutti gli amici di“ Solaria”.
È un po’ difficile in poche parole riassumere quello che è stato Vittorini per la letteratura, per la cultura italiana; diciamo pure, anche per la vita della nazione in questi ultimi 35-40 anni. Siamo qui, oggi, convenuti per un dibattito; e accanto a me c’è uno dei suoi più vecchi amici, Giansiro Ferrata che l’ha conosciuto, appunto, quando Vittorini è passato per la prima volta da Firenze; c’è Franco Fortini, che appartiene a un’altra generazione, ad una generazione più giovane, che ha avuto modo di conoscere Vittorini a Milano, negli anni della guerra, e di collaborare poi con lui a quella che è stata una rivista molto importante, “Il Politecnico”; e infine c’è anche Raffaele Crovi, che è il più giovane di tutti noi che siamo qui e che è stato vicino, giorno per giorno, a Vittorini, dal 1955 al 1966.
Io penso che convenga subito sentire da questi amici che cosa è stato Vittorini per queste tre generazioni. Siamo naturalmente una specie di campionario, intorno a questo tavolo infatti potrebbero sedersi moltissime altre persone, perché Vittorini è stato veramente un sollecitatore di tutta la gioventù italiana, possiamo dire, dal 1936 in poi. E scelgo appunto questa data, perché è l’anno della guerra di Spagna, quando Vittorini prende veramente coscienza della sua personalità, della sua figura, della sua forza. Ed ha, come dicevo prima, guidato, ha accompagnato tutti i giovani italiani con un senso di partecipazione, con quella sorta di ottimismo che aveva e quella fiducia nell’uomo che è stata una cosa rarissima, soprattutto nell’ambito della nostra cultura. E, cominciamo, appunto, con Giansiro Ferrata, perché egli ha assistito da vicino Vittorini, ha dialogato con lui. È partito per questa amicizia dal 1928-29.

FERRATA
Dal ’29. Nel 1929, quando incontrai Elio per la prima volta, “Solaria” svolgeva il suo lavoro da due o tre anni. Egli aveva collaborato a “Solaria” già con alcuni racconti. Noi lo vedemmo passare nei primi mesi del 1929, Vittorini, che allora aveva 21 anni soltanto, ed era ammogliato con la sorella di Salvatore Quasimodo ed aveva un figlio, Giusto, che aveva un anno, credo. Era lui stesso, Vittorini, quasi un ragazzino, nel fisico; estremamente magro, sottile, già con una grazia, già con un fascino, come diceva appunto Bo. Un carattere del tutto singolare, che nasceva, insieme, dalla sua grande forza intellettuale, dalla sua libertà, in tutti i sensi, dal suo ingegno letterario, dal suo impegno civile, nel senso in cui poteva sin da allora sentirlo, e da tutto un insieme di cose che ne facevano, oltre che uno scrittore tra i più interessanti, subito, nella sua generazione, uno tra gli uomini di più singolari attrattive.
E noi rimpiangemmo – dico noi dicendo Montale, Bonsanti, Loria, Gadda, eccetera; quelli che erano più legati, come me, all’ambiente di “ Solaria” – che questa specie di enfant prodige estremamente simpatico ed estremamente semplice, non potesse fermarsi con noi a vivere e a lavorare nel nostro stesso ambiente, perché stava, appunto, andando a Gorizia, dove gli era stato offerto un posto di assistente ai lavori pubblici. E lui, per spirito di avventura, in parte, e in parte perché aveva pochissime fonti di guadagno, andava lassù a svolgere questo lavoro.
Lui siracusano, figlio di ferroviere, uomo di estrazione piuttosto modesta, che aveva stentato sempre moltissimo a vivere, come i suoi fratelli. Vittorini arrivò, dunque, a Gorizia, e poco dopo ci scrisse lettere desolate, dalle quali appariva chiaro che gli era stato giocato un brutto tiro, perché lui che era andato appunto dall’estremo Sud d’Italia all’estremo Nord per occupare questo posto di lavoro, trovò invece lassù che il posto di lavoro non era a sua disposizione. Poté svolgere una parte, così, di questa attività, e dopo non sapeva più come fare, anche perché per le proteste dei lettori meno intelligenti de “La Stampa”, allora, nel 1929, in piena epoca fascista, contro gli articoli che Vittorini scriveva su Stendhal, su Proust, sul sinistro De La Chambre, come allora diceva Elio, e che erano articoli in parte a chiave, il direttore di allora della “Stampa”, Curzio Malaparte, che era amico di Vittorini, e lo aveva anche in alcune occasioni protetto, essendo divenuto anche lui, forse in quel momento, inviso a parecchi fascisti (poco dopo dovette lasciare, infatti, il posto di direttore), scrisse un letterino rapido a Vittorini, in cui gli comunicava che la sua collaborazione a “La Stampa” doveva ritenersi troncata.
Vittorini si trovava, quindi, nella situazione più tragica, nella quale possa trovarsi un uomo giovane al quale fanno già capo delle persone che devono vivere di lui. Poté però ottenere, grazie ad alcuni amici, un appoggio per vivere
a Firenze; s’impiegò come correttore di bozze a “La Nazione” in un primo tempo; poi in un settimanale fiorentino svolse un lavoro critico e cominciò, soprattutto, quel lavoro di traduzione, che gli venne trovato in particolare da Montale e da alcuni amici di Montale, quel lavoro di traduzione dall’inglese che lui intanto stava studiando, e che gli permise di diventare in breve uno dei più attivi importatori di cultura nuova, giovane, che si sia avuto in Italia. Ed io ricordo subito il suo ingresso in “Solaria” come un intervento animatore, nel senso, appunto, di una cultura internazionale. Mentre “Solaria” era una rivista già aperta, ma piuttosto portata a guardare, semmai, verso Parigi, oltre che verso Firenze e Roma, Elio – che guardava moltissimo a Parigi e guardava moltissimo a Firenze, a Roma, a Milano, – portò anche subito qualcosa di più ricco, cioè un guardare non soltanto a Parigi, ma un cercare semmai a Parigi anche quello che confluiva da altre zone, anche lontane.
E tutto il suo occuparsi di cultura, non soltanto in senso letterario, ma anche per i più vari problemi – subito si vide che in lui c’era un elemento culturale ricco, complesso, che gli interessava quanto la letteratura, nella quale cominciava già a segnalarsi con forza – diede indubbiamente alla rivista una spinta fondamentale.
Io vidi poi nascere, nel periodo “solariano”, essendo molto amico a Elio, le sue prime opere, i suoi primi libri, da quella Piccola Borghesia ancora così piena di freschezza, a quello che è il suo primo libro compiuto, Il garofano rosso, romanzo al quale lui premise, poi, una prefazione nuova, dopo l’ultima guerra, e che quindi lui sostenne ancora come un’opera importante della sua adolescenza, della sua giovinezza; e poi, infine, il libro che forse per primo segna il passaggio al Vittorini maturo, Il viaggio in Sardegna. Dal Viaggio in Sardegna in poi venne veramente, circa nel 1935, come accennava Bo poco fa, il periodo fondamentale per lo sviluppo letterario di Elio. E fu il periodo della guerra di Spagna; periodo in cui “Solaria” aveva già cessato le sue pubblicazioni, da poco tempo, e cominciava a venire sostituita, come lo sarebbe stata poi nel ’37, dalla nuova rivista “Letteratura”, che continua su una scala più vasta quello che era stato, in parte, il lavoro di “ Solaria”, prima.
Vittorini pubblicò proprio in “Letteratura” l’opera che secondo me, secondo moltissimi, rimane ancora la sua maggiore, il suo capolavoro si può ben dire, cioè quella Conversazione in Sicilia che riguarda, per una parte vivissima, la stessa Sicilia, come riguarda l’Italia in genere; ma che riguarda certamente, per una parte altrettanto viva, la Spagna. Perché è molto facile leggere, come attraverso l’inchiostro simpatico, attraverso un foglio trasparente, in molte delle notizie che si danno in quel libro – che non è soltanto un libro di alta poesia narrativa, ma è anche un libro di dialogo, e di profonda ricerca spirituale – quale era veramente il tema che turbava anche Vittorini : e cioè il suo “ sinistrismo”; e non ho nessun falso pudore nel dire che si trattava anche di un fascismo di sinistra, allora, per il giovanissimo Vittorini. Vittorini aveva portato da Siracusa una sua polemica antiliberalistica, anticonservatrice, che, in determinate circostanze, lo aveva reso ancora vicino a certi ambienti fascisti di sinistra. E fu appunto, come poi per parecchi altri, quello, il periodo della guerra di Spagna, che fece maturare in lui una rottura netta. E tutto il libro, tutta la Conversazione in Sicilia, è in funzione di quel dibattito.

BO
Se permetti, ti vorrei interrompere, appunto per dire che se si prendesse la collezione di un giornale fascista, che era il giornale della Federazione di Firenze, “II Bargello”, lì si potrebbe vedere come è avvenuta questa trasformazione dall’interno, di Vittorini. Mancavano infatti notizie sull’atteggiamento ufficiale dell’Italia, cioè nei primi tempi non si sapeva da che parte si era schierata l’Italia; e Vittorini e i suoi amici – mi pare che ci fosse anche Pasolini, allora – hanno avuto, quindi, mano libera, almeno per due mesi, per i mesi del luglio e dell’agosto del ’36. Appunto, se si andasse andasse a tirare fuori questo giornale dimenticato, si vedrebbe come Vittorini ha preso coscienza dell’importanza della guerra di Spagna. E a questo proposito vorrei aggiungere un’altra cosa. Io avevo tradotto due o tre poesie di Lorca, le avevo tradotte da letterato, non essendo informato della situazione reale della Spagna e della posizione che aveva assunto Lorca; ed è stato appunto Vittorini, al tempo di “Letteratura”, a farmi incontrare con un inglese che aveva portato dalla Spagna, dove aveva combattuto, delle poesie di Lorca. Sono, appunto, le poesie che ho tradotto in maggior numero per la rivista “Letteratura”. È questo un debito che voglio riconoscere qui, pubblicamente, a Vittorini.
Negli stessi anni era avvenuto il passaggio, se non sbaglio, da Firenze a Milano dove Vittorini aveva preso a tradurre per una casa editrice e dove a un certo punto si era trasferito, anche perché aveva una forte simpatia per Milano, che è sempre poi rimasta la sua città. Tante volte ha dichiarato, appunto, che Milano era l’unica città italiana che avesse un carattere europeo. Giunto a Milano, non solo ha continuato a tradurre, ma ha iniziato quell’altra sua attività di consigliere, di suggeritore della vita editoriale.
Ecco, ora io penso che Ferrata potrebbe dire...

FERRATA
Molto in breve, per passare la parola a Franco Fortini, che ci parlerà di un’altra fase... Io vidi Vittorini venire a Milano, allora; anzi, stavamo facendo, allora, un libro insieme, che è La tragica vicenda di Carlo III, un libro storico. E voglio dire che allora tutti gli studi storici importavano a Vittorini moltissimo; Michele Amari, e altri storici, anche viventi, lo interessavano per i suoi studi personali e poi entrarono a far parte di questa prima collezione che lui diresse per la casa Bompiani, la collezione “Corona”, che fu, tra le sue attività editoriali, una delle passioni di Vittorini. Uno dei motivi della nostra amicizia iniziale anzi fu il ricordo che tutti e due avevamo della piccola Collezione Universale Sonzogno... E Vittorini ebbe subito questa passione di realizzare una nuova Collezione Universale Sonzogno, dandole però, come lui faceva sempre, un carattere del tutto nuovo.
E qui vorrei dire solo due cose, per poter poi concludere: la prima è che “Corona” si inizia proprio con degli scritti di Carlo Cattaneo: India, Messico,Cina. E l’interesse per Cattaneo che fin da allora, per Vittorini e per me, era stato anche uno dei motivi del nostro dialogo continuo, stabiliva già il passaggio, in un certo senso, verso il “Politecnico”, perché, come tutti sanno, il “Politecnico”, il vecchio “Politecnico” del Secolo XIX, era stato creato da Cattaneo.
Un’altra cosa che voglio dire su un altro piano – e qui la metto come ipotesi, girandola appunto a Fortini – è che contribuirono enormemente allo sviluppo delle idee di Vittorini verso il “Politecnico”, così come lo realizzò subito dopo il ’45, cioè subito dopo la Liberazione, due altre persone che purtroppo morirono durante la guerra in circostanze, tutte e due, estremamente tragiche, Giaime Pintor ed Eugenio Curiel. Giaime Pintor amicissimo a Vittorini già prima della guerra e che gli era vicino in tutti i sensi, anche per la collaborazione a riviste letterarie, per il modo con cui appunto cultura, letteratura, politica per loro si incrociavano, sarebbe stato certamente, se fosse sopravvissuto al salto su una mina mentre andava dal Nord al Sud durante la guerra, da partigiano, uno dei fondatori, e tra i più autorevoli, del “Politecnico” . E poi l’altro, Eugenio Curiel, la cui importanza sta proprio nell’essere stato il primo ad orientare Vittorini, che già vi si era portato in un modo però forse un po’ patetico e letterario, verso le scienze. E qui vorrei che Fortini, che fu redattore del “Politecnico”, ci parlasse, appunto, di questa esperienza alla quale io stesso ho partecipato.

FORTINI
Ho conosciuto Vittorini a Firenze sulle pagine di “Letteratura”, dove compariva Conversazione in Sicilia, ma non ho avuto occasione di incontrarlo di persona fino al ’43, proprio nei giorni di Badoglio; in uniforme da sottotenente di fanteria mi recai nella sede, sconquassata dalle bombe, della casa editrice Bompiani, per parlargli di una traduzione che volevo fare per la collezione “Corona” che egli curava per Bompiani. In occasione di questo primo incontro, rammento benissimo che Elio mi parlò della possibilità, una volta finita la guerra (e la fine sembrava imminente) di creare una rivista, una pubblicazione culturale destinata a giovani di tutte le classi sociali ma che si rivolgesse anche e soprattutto ai giovani lavoratori in quell’età (diceva) nella quale tutti sono intellettuali.
Era il primo germe del “ Politecnico”. Dovevano passare quei venti mesi e dovevamo venire nell’estate del ’45, perché incontrassi di nuovo Vittorini. Nei miei confronti Vittorini è stato quello che poi è stato per moltissimi altri; ha aiutato la mia nascita d’autore. Perché proprio durante quell’estate feci leggere a Elio i miei primi versi che Elio poi mi aiutò a pubblicare presso l’editore Einaudi.
Dopo la breve permanenza sua come direttore, e mia come redattore, a un giornale (“Milano Sera”) che comparve quell’estate, dovevamo ritrovarci ancora, agli inizi del settembre ’45, presso una sede Einaudi, in viale Tunisia, dove – con modi che a me sembravano misteriosi, perché Elio era riservato – si stava preparando la pubblicazione settimanale che si sarebbe chiamata “Il Politecnico”.
Quello che è stato “Il Politecnico” è oggi difficile a dirsi, perché bisogna ricollocarlo nell’atmosfera estremamente tesa, drammatica, convulsa, di quei mesi. Certo è stato, per Elio e per noi che gli eravamo vicini, un impegno totale. Il “Politecnico” era un foglio settimanale che non soltanto si rivolgeva ai ceti intellettuali, ma ai nuovi italiani. Non posso dimenticare l’emozione che dava il vedere “Il Politecnico” affisso, impastato, sui muri di Milano come uno dei tanti manifesti politici di allora; vedere, dicevo, nell’aria aperta, pubblica, di quell’inverno di miseria e di speranza, una pagina con i testi di poeti e di scrittori che avevamo considerato fino ad allora riservati a pochi e che per molti anni ci avevano accompagnato in una condizione di semiclandestinità. Era qualcosa – lo sapevamo – che era successo solo nella Russia della guerra civile e nella Spagna rivoluzionaria.
Elio era circondato da un affetto e da una fama che non teneva soltanto alla sua arte di scrittore, ma anche alla figura assunta nel corso della Resistenza; e al libro che di quella Resistenza parlava – Uomini e no – pubblicato proprio in quel periodo. Quindi ci accadeva spesso di vedere Elio circondato da quei “non addetti ai lavori” che allora egli preferiva certamente agli “addetti”. Fin da allora si poteva notare quella energica insofferenza di Vittorini nei confronti del letterato propriamente detto che lo ha accompagnato per tutta la vita. Non è qui il caso di rifare la storia interna della rivista “II Politecnico”, delle sue contraddizioni, delle tensioni che essa determinava. E la testimonianza dell’importanza del lavoro svolto da Elio (e, in una minore misura, da noi) sta nel fatto che tutta una generazione di italiani, si può dire, ha scoperto verità sulle pagine di quel settimanale.
C’era, naturalmente, l’aspetto propriamente politico della rivista, che a persone come me, per esempio, rimaneva in penombra, in quanto Vittorini non ne parlava gran che. Solo quando, nel 1947, si determinò la crisi con il Partito Comunista, in occasione della famosa polemica con Togliatti, la redazione prese aperta posizione a favore di Vittorini.
Il lavoro si svolgeva in condizioni molto dure. L’inverno 1945-46 è stato in tutta Europa un inverno particolarmente terribile. La lotta – ché si trattava veramente di lotta – per fare uscire quella rivista e per farla come noi volevamo si fondava su una visione della situazione europea che potremmo oggi dire apocalittica. Era l’anno zero non solo della Germania, in quel momento. Si aveva l’impressione che gli strumenti tradizionali della cultura fossero distrutti; che tutti dovessero far tutto, in una certa misura. Questo era anche uno dei significati della parola “Politecnico”. Quindi c’era una sorta di volontariato culturale che oggi può essere incomprensibile a molti giovani che quell’esperienza non abbiano vissuta.
Sono stati due anni nei quali ho avuto contatto quotidiano e continuo con Vittorini. È molto importante notare che Vittorini non era solo. C’era una evidente diffidenza da una parte, la più tradizionalista, delle nostre lettere. Ma egli ricevette subito, a partire dal primo numero del “Politecnico”, l’appoggio di alcuni uomini di cultura che noi, più giovani o meno scaltriti di lui, potevamo ritenere abbastanza lontani allora dalle posizioni di una rivista come “Il Politecnico”. Penso in particolare a Carlo Bo, che fin dal secondo numero della rivista è intervenuto in quella che è stata la discussione sul tema stesso del “Politecnico”, sulla “ nuova cultura”. In quella occasione Bo è intervenuto in modo che ha animato tutto il primo periodo del “ Politecnico”, fino alla sua trasformazione in mensile. Forse Bo ce ne può dire qualcosa.

BO
Beh, insomma, sì, io ero intervenuto soltanto sulla polemica... Mi pare che Vittorini avesse incluso tra i rappresentanti della cultura anche Cristo; e allora io avevo risposto in modo, così, un po’ risentito, ma sempre affettuoso. Per me Cristo non era cultura. Ma questo mi serve per tratteggiare nuovamente quello che per me era il fondo religioso dell’anima di Vittorini. Aveva questa curiosa aspirazione all’ottimismo. Lui credeva veramente nel Progresso dell’uomo, nella possibilità che l’uomo fosse suscettibile di correzione e di miglioramento. E, quindi, veniva a scontrarsi, caso mai, con la mia visione pessimistica che derivava dal cattolicesimo; ma Vittorini mi aveva insegnato, allora, anche questo, che è un punto molto importante: voglio dire che anche la fede deve essere verificata nell’ambito stesso della vita e deve cominciare dalla partecipazione alla vita degli uomini, a quello che è il riconoscimento della vita quotidiana, degli sforzi dell’uomo della strada.
E vorrei chiudere questa parentesi invitando Fortini a dire quello che ha rappresentato per la cultura italiana, per la vita dell’intelligenza italiana, “Il Politecnico”, prima di passare la parola al Crovi, il quale ha assistito quotidianamente all’evoluzione dell’ultimo Vittorini.

FORTINI
Quello che Bo ha detto sulla “fede” di Vittorini mi sembra verissimo. Mi è accaduto anni fa di scrivere di lui che “credeva alla giovinezza come ad una giustizia”. Era uno dei suoi modi di credere nella giustizia, come una partecipazione immediata e diretta alle cose. “Il Politecnico” ha avuto, a mio avviso, una doppia funzione. Per un verso, la funzione che ci proponevamo, cioè di svegliare a un certo ordine di problemi un largo numero di persone che, più tardi, avrebbero avuto altri strumenti per accedere ad altre nozioni, ad altri elementi di cultura. Per un altro verso ha avuto certamente una notevole importanza – penso soprattutto al secondo “ Politecnico”, a quello mensile – nei confronti degli uomini di cultura italiani. In questo senso: che se oggi noi scorriamo l’indice del “Politecnico” mensile, vi troviamo trattati o toccati quasi tutti gli argomenti` che sono stati oggetto di discussione nei quindici anni seguenti, una gamma vastissima di problemi, che non sono soltanto quelli del rapporto fra politica e cultura, ma che si estendono ai campi più diversi.
Se si guardano gli autori che sono stati pubblicati in quelle pagine, spesso ci stupiamo di vedere che per la prima volta certi nomi, certi autori – penso a Lukács, ad esempio – compaiono per la prima volta in Italia sul “Politecnico”. Ma non si tratta solo di autori e nomi; si tratta di problemi. Ed è interessante notare come nel “Politecnico” mensile si iniziasse (forse sulla scorta di quel programma iniziale del settimanale, che è stato recentemente pubblicato e che fu elaborato da Vittorini e probabilmente da Eugenio Curiel) una collaborazione di tipo scientifico e filosofico che necessariamente era stata assente o quasi dalla fase del settimanale.
Non bruscamente ma attraverso una serie di sussulti e di successi, nel 1947, si chiudeva “ Il Politecnico”.

BO
Ecco, sentiamo un po’ che cosa ne pensa Ferrata; potrà dirci qualche cosa.

FERRATA
Apprezzo molto che Bo e Fortini abbiano insistito su questo elemento religioso che io chiamerei anche elemento morale; in proposito vorrei ricordare come quelli fossero gli anni in cui si veniva scoprendo Gramsci, che fu una scoperta fondamentale per lo sviluppo del “Politecnico”. Antonio Gramsci, uomo che considerava il rapporto tra elementi politici, culturali, letterari, come legato sempre ad un concetto, anche per lui essenziale, quello di attività etico-politica, era stato, in questo senso, estremamente vicino a tutti noi; e fu a un certo momento il nucleo ordinatore di un certo spirito del “Politecnico”, anche nel senso scientifico. Perché, a un certo momento, il “Politecnico” trovò proprio nei comunisti una difficoltà fondamentale al proprio sviluppo? Si è molto insistito sulla parte che avrebbe svolto Togliatti in questo senso; io posso dire nel modo più fermo ed assoluto che Vittorini avrebbe continuato a fare, nel “Politecnico”, la sua polemica con Palmiro Togliatti, perché non la sentì mai come una polemica contraddittoria con l’essenza del “Politecnico”; si trattava sempre di una polemica che avrebbe potuto riportarsi a Gramsci, come a un termine di riferimento e di possibile discussione. A un certo momento, invece, vennero internamente al Partito Comunista altre forze, le quali svolgevano un’azione polemica, che credevano in parte benevola verso “Il Politecnico” stesso; lo volevano insomma correggere, lo volevano migliorare, sembravano voler dire: “ Si, voi siete dei bravi ragazzi ingenui, ma non vi siete accorti che il marxismo è un’altra cosa...”. A questo Vittorini si ribellò. Si ribellò come si ribellava sempre ad ogni attività educativa nei suoi riguardi; quando aveva il senso che fosse un’attività falsamente educativa e pedagogica nel senso peggiore dei termini.

FORTINI
Ne so qualcosa io.

FERRATA
Lo sa Fortini... Ed io posso dire nel modo più modesto e occasionale di aver assistito, in una casa di amici, all’ultimo atto, in un certo senso, della vita del “ Politecnico”, che fu il tentativo in buona fede, da parte di una personalità comunista, di dimostrare a Vittorini che se lui fosse stato presente nella prima fase del “Politecnico”, certi errori non sarebbero stati commessi. La discussione che avvenne in quel momento rese Vittorini così malcontento di certe situazioni che erano venute formandosi (e unendosi a ragioni economiche, editoriali e altre molte difficoltà, e alla sua volontà di lavorare più direttamente come scrittore) da indurlo a chiudere il “Politecnico”.

BO
Ringrazio Ferrata della sua precisazione e chiudiamo pregando l’amico Crovi di dirci che cosa è stato l’ultimo Vittorini, il Vittorini degli ultimi dieci anni.

CROVI
Prima di coinvolgermi nel racconto sul Vittorini degli ultimi anni, in quanto gli sono stato vicino come collaboratore, vorrei dire, a proposito di “Politecnico”, che una delle ragioni che può averne determinato la crisi, che è stata personale di Vittorini ma anche dell’ equipe della rivista, una crisi della cultura italiana che aveva espresso, nell’immediato dopoguerra, “Il Politecnico”, può essere rintracciata nella congiuntura politica di quel momento; Vittorini diceva che “ Il Politecnico” è stato una delle prime vittime della guerra fredda.
Vittorini io l’ho conosciuto da studente universitario. Ero matricola all’Università Cattolica e andai da lui per intervistarlo. Avevamo in progetto di fare un giornale di ateneo, che si chiamò “Dialoghi”, e per il primo numero avevamo pensato di fare un articolo su Vittorini; un articolo su Vittorini e i giovani. Andai da lui per intervistarlo e il discorso si sviluppò, in una serie di incontri, in ufficio e a casa sua : diventò amicizia e l’inizio di un rapporto di collaborazione su cui si è fondata la mia educazione professionale. Anche l’inizio dei nostri rapporti, episodio minimo di una ricerca culturale intesa come dialogo, è indicativo, credo, per giudicare Vittorini. Mi diceva suo fratello Ugo, due giorni dopo la sua morte: “Se Elio avesse vissuto ai tempi di Francesco d’Assisi non sarebbe stato uno scrittore, sarebbe stato un predicatore ed avrebbe espresso il suo slancio etico-politico in quelle forme di educazione. Io sono stato vicino a Vittorini dal ’55 al ’66, nel periodo in cui Vittorini è stato, per sua scelta, più che uno scrittore un animatore culturale. Credo che come scrittore Vittorini si sottovalutasse: era portato ad accentuare il proprio impegno di animatore culturale che lo portava a partecipare agli altri una sua idea della cultura come un fatto collettivo. Delle esperienze vittoriniane di “Solaria” e di “Politecnico” la mia conoscenza è indiretta. Le prime volte che ci incontravamo, Vittorini, nella conversazione che pur riguardava abitualmente problemi semplici, familiari, suggerendomi lo studio di scrittori come Gadda, Montale, Landolfi, Palazzeschi, Svevo, Proust, Faulkner, Joyce, mi proponeva la prospettiva di cultura europea che era stata di “ Solaria” e che fu di “Politecnico”.
È questa la strada di ricerca verso la quale mi ha indirizzato ed è in questa prospettiva che ha cercato di animare il discorso tra lui e i giovani, anche mediante l’esperienza editoriale della collana “Gettoni” in cui ha rivelato tanti giovani scrittori: scrittori come Lalla Romano, Fenoglio, Lucentini, Calvino. Si dice che Vittorini abbia instaurato, nell’ambito delle ricerche della giovane letteratura, la pratica dell’editing, impostando il lavoro di certi narratori, aiutandoli a correggere i propri testi, a tagliarli, ecc. Questo non è esatto. Il suo era un intervento di analisi critica. Non ha mai imposto tagli di testi. Preciso il fatto, per ribadire quale discrezione e umiltà abbia avuto nel suo lavoro di animatore culturale.
Uno scrupolo che lo portava a pubblicare testi di autori in cui, sotto il profilo etico – morale, sotto il profilo ideologico, non credeva con perfetta convinzione. Pubblicava opere, magari discutendole negli stessi testi con cui le presentava.
Era un altro modo per stabilire il dialogo, per renderlo necessario, per provocarne l’inevitabilità: amava definirsi un rompiscatole. Ha svolto un’attività culturale polemica, provocatoria, ma sempre profondamente onesta: la sua poetica, ad esempio, non è mai stata prevaricante nelle sue scelte di giovani autori.
Questo tipo di onestà è, mi pare, ciò che contraddistingue anche l’esperienza successiva, alla quale ho partecipato, cioè quella della rivista “Il Menabò”, dove il lavoro di analisi e di ricerca letteraria, indirizzato soprattutto verso la giovanissima letteratura, è continuato fino a ieri. Quello che Vittorini mi ha insegnato è, quindi, che la cultura non è un fatto didascalico, né un fatto celebrativo, ma un atto di conoscenza: la cultura non è mai, non deve mai essere, cultura nazionalistica, sciovinistica, settoriale, altrimenti non è cultura; la cultura è democratica e quindi un lavoro collettivo.

BO

Con questo intervento di Crovi chiudiamo il nostro dibattito. Ma è inutile dire che si tratta di un dibattito campione. Abbiamo toccato solo alcuni punti della personalità di Vittorini. Eravamo oggi in quattro ma, come ho detto prima, potremmo essere stati in cento, in mille, tutti quelli che pensano e che scrivono e che porteranno nei loro discorsi, nei loro dibattiti, nelle loro preoccupazioni, l’immagine di quel che Vittorini è stato, di quello che ha voluto e ha rappresentato.

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