4.3.14

A scapito dell’ironia. Hugo, l'avvocato del popolo (Lucio Villari)

L' irradiazione politica e i sentimenti sociali che promanano da gran parte dell'opera letteraria e poetica di Victor Hugo rinviano ad una immagine dell'Ottocento che, tra le tante possibili, sembra ancora la più verosimile. Cioè un secolo che a quanti come Hugo lo vissero con attenzione, apparve rappresentabile e descrivibile non solo nei parziali aspetti e nelle tante forme in cui esso si rivelava, ma nella sua totalità.
Victor Hugo elaborò addirittura una formula, tra il titanismo poetico e l'empirismo filosofico, "il tutto nel tutto", che riflette bene l'idea che egli aveva del proprio tempo e dei suoi problemi più incalzanti (politici o artistici che fossero); ma che spiega anche le ragioni della grande popolarità di questo scrittore, in Francia e nel mondo.
Hugo ha costruito su di sé e sulle proprie opere (fin dai primi versi e dai primi romanzi storici) l'autoritratto di un secolo e il ritratto della sua nazione, non tralasciandone alcun segreto: né le fogne di Parigi, né le "contemplazioni" di paesaggi interiori o di struggenti tramonti normanni; e soprattutto non privando, queste rappresentazioni, di grandi sfondi ideali, quali la Storia, la Libertà e l' Eguaglianza, di incitamenti etici alla lotta contro la miseria sociale e il dolore universale degli uomini. Tutto questo a scapito di uno dei tratti fondamentali del romanticismo (il movimento del quale Sainte-Beuve lo aveva addirittura proclamato tra i fondatori in Francia), cioè l'ironia.
Hugo se ne liberò infatti rapidamente; e non è detto che anche il suo sottrarsi ad essa non abbia facilitato l'identificazione delle sue opere con i sentimenti medi, bonari e "popolari" del tempo, anzi con il sentimentalismo interclassista della borghesia francese ed europea di metà Ottocento.
Solo Hugo avrebbe potuto scrivere nel 1852: "Proclamiamolo ad alta voce, proclamiamolo nella rovina e nella disfatta, questo secolo è il più grande dei secoli; e sapete perché? Perché è il più mite... Questo secolo proclama la sovranità del cittadino e l'inviolabilità della vita; incorona il popolo e rende sacro l'uomo... Abbiamo fede! Affermiamo! L'ironia su se stessi è il principio della viltà. E' affermando che si diventa buoni". E, con i verbi al passato, come un osservatore di un secolo venturo, aggiungeva: "Sì, l'affrancamento delle intelligenze, e per conseguenza l'affrancamento dei popoli, era il compito sublime che il diciannovesimo secolo adempiva in collaborazione con la Francia, poiché il doppio lavoro provvidenziale del tempo e degli uomini, della maturazione e dell' azione, si confondeva nell'opera comune, e la grande epoca aveva per centro la grande nazione".
Queste parole, accresciute dall'esaltazione delle conquiste della scienza, della cultura e della tecnica ("Questo secolo sopprime il tempo, la distanza, il dolore"), colpiscono certo per la loro retoricità, tuttavia appartengono ad un pamphlet, - Napolèon le Petit, - che ha reso celebre in Europa proprio l'Hugo politico e il critico più severo degli arbitrii del potere. In quello scritto si denunciava il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, che aveva trasformato il presidente della repubblica francese Luigi Napoleone in Napoleone III. In altri termini, quelle celebrative parole di Hugo non sono nel posto giusto: a smentita del proclamato ottimismo costeranno, tra l'altro, al loro autore diciotto anni di esilio.
D'altronde, è proprio questo l'Hugo scrittore "sociale": essere spesso (come dire?) fuori posto, non andare per il sottile nella scelta delle occasioni e dei luoghi per lanciare messaggi politici e incitamenti avveniristici. Avevano ragione, quindi, due ironici per eccellenza - per quanto diversissimi -, Manzoni e Marx, a giudicare così Napolèon le Petit: "Victor Hugo con quel suo libro sopra Napoleone rassomiglia a uno che si creda gran suonatore d'organi e si metta a suonare, ma gli manca chi gli tenga il mantice" (Manzoni); "Victor Hugo si limita a un'invettiva amara e piena di sarcasmo contro l'autore responsabile del colpo di Stato. L'avvenimento in sé gli appare come un fulmine a ciel sereno. Egli non vede in esso che l'atto di violenza di un individuo. Non si accorge che ingrandisce questo individuo invece di rimpicciolirlo, in quanto gli attribuisce una potenza di iniziativa personale che non avrebbe esempio nella storia del mondo" (Marx).
Eppure, era più nel giusto Hugo dei suoi critici, se è vero che quando, il 2 settembre 1870, Napoleone III venne sconfitto a Sedan e fatto prigioniero dai prussiani, fu l'autore di Napolèon le Petit a diventare il simbolo della svolta della Francia e la speranza della nuova democrazia repubblicana. Lo si vide subito, al suo rientro trionfale in Francia avvenuto tra continue dimostrazioni di esultanza fino all'ovazione popolare a Parigi. "Siamo arrivati a Parigi alle 9 e 35", è scritto nel suo diario alla data 5 settembre. "Una folla immensa mi attendeva. Accoglienza indescrivibile. Ho parlato quattro volte. Una volta dal balcone di un caffè, tre volte dalla mia vettura... Ho detto al popolo: "voi mi ripagate, in un'ora, di vent'anni di esilio". Cantavano la Marsigliese e il Canto della Partenza. Gridavano "Viva Victor Hugo!". Il tragitto, dalla stazione Nord a rue de Laval, è durato due ore".
Hugo non ripagò questa sincera esultanza popolare e rifiutò di far parte del governo provvisorio repubblicano proclamato nella Parigi assediata dai prussiani; ma la sua presenza era, in quel momento, una garanzia di innegabile valore e importanza. La sua scelta di campo politico era d'altro canto ben visibile nelle sue opere. Con I Miserabili (1862), I lavoratori del mare (1866) e L'uomo che ride lo scrittore era entrato prepotentemente tra i romanzieri sociali (e d'appendice) con l'autorità del profeta della democrazia e del difensore dei diritti dell' uomo (degradato, come è detto nella nota che introduce I Miserabili, nel proletariato), della donna (costretta spesso all' abiezione per fame), dei fanciulli (resi atrofici "per tenebra" intellettuale).
Il segno di questa sua nuova posizione ideologica non era avvenuto, però, con la rivoluzione del 1848, ma solo dopo la delusione provocatagli dal colpo di Stato del 2 dicembre. Fino ad allora Hugo era stato monarchico, legittimista e Pari di Francia. Dopo le barricate parigine del giugno 1848 era stato bensì eletto all'Assemblea Costituente repubblicana, ma in una lista di destra; e all'Assemblea Legislativa del 1849 era stato eletto in una lista di conservatori. Anche per questo uno degli episodi centrali de I Miserabili, le barricate di Parigi, è collocato dall'autore non già nel 1848 (quando l'insurrezione fu una cosa molto seria), ma in un tentativo di piazza del 1832, quando i grandi temi della democrazia e del socialismo erano appena visibili. Era facile allora a Hugo far lanciare al capopopolo Enjolras (Libro Quinto, paragrafo 5) un messaggio all'Avvenire, dove la retorica raggiungeva il sublime: "E quale rivoluzione faremo? L'ho appena detto, la rivoluzione della Verità. Dal punto di vista politico c'è un solo principio: la sovranità dell'uomo su se stesso. Questa sovranità dell'io sull'io si chiama Libertà".
Ed è certamente autobiografica la pagina de L'uomo che ride (Libro Nono, paragrafo 1) dove il protagonista si sente investito della faticosa responsabilità di fare qualcosa per il popolo ("E quando un uomo ha un'idea, quando è l'incarnazione di un fatto, quando è uomo-simbolo e al tempo stesso uomo in carne ed ossa, la responsabilità non turba ancora di più?").
Già da tempo, d'altronde, qualcuno si era accorto che Hugo tendeva, sfidando il ridicolo, a identificarsi con la coscienza del mondo, cosa che accadeva spesso ai borghesi delusi. In una lettera del 1866 a Paul Lafargue, Marx citava sorridendo il calembour di Heinrich Heine in Lutetia: "Hugo non è soltanto egoista, ma hugoista". E tuttavia, i romanzi, i trentamila versi della Leggenda dei secoli (un poema-vaticinio sulla civiltà e la storia dei popoli), gli appelli alla pace tra le nazioni, il progetto degli Stati Uniti d'Europa, i proclami alla giustizia sociale tra gli uomini, raggiungevano milioni di coscienze e perfino pieghe misteriose dell'animo umano, non lasciando indifferenti nemmeno poeti come Baudelaire. In fondo, in tanto sciame retorico brillava qualcosa di vero: "Il popolo è in silenzio. Io sarò il suo grande avvocato. Parlerò per i muti. Parlerò dei piccoli ai grandi e dei deboli ai potenti. Questo è il fine della mia sorte" (L' uomo che ride).
Se nel 1848 tutta l'Europa era stata scossa dalla rivoluzione, se in quell'anno era apparso lo straordinario Manifesto dei comunisti, vuol dire che l'Ottocento pieno di meraviglie e di progresso, che tanto piaceva agli intellettuali come Hugo, coltivava nel profondo un'ansia di democrazia autentica, di eguaglianza politica e sociale, di libertà vera che solo la speranza del socialismo, ma anche la spada di Garibaldi e la parola di Hugo riusciranno a rappresentare. E non a caso Hugo sentiva in Garibaldi l'uomo capace di realizzare il futuro di giustizia dell'Europa, al punto da dimettersi nel marzo 1871 dal Parlamento francese per essere stata contestata l'elezione dell' amico italiano, accorso generosamente in difesa della nuova repubblica di Francia.
Dalla vita vissuta di Victor Hugo traspare con chiarezza che con il popolo egli non ebbe, in realtà, alcun contatto. Anzi, proprio la sua esperienza intellettuale e politica richiederebbe una ricerca storica sul concetto di popolo nella cultura borghese europea del secolo scorso. Questo concetto poggiava sul vuoto di tanta letteratura sociale e sentimentale, pensata nello stile di Hugo.
Eppure, nel 1885, la sua morte addolorò molti in Europa. La commozione fu magnifica e victorhughiana, ma forse serpeggiò la sensazione che con lui tramontasse l' Ottocento. "Tutto che fu gloria di questo secolo", scrisse subito Giosuè Carducci, "tanto audace e buono nel suo principio... tutto fu raccolto e concentrato nella vita e nell' opera di Vittore". Ma non possiamo credere che anche allora non ci fossero persone che, leggendo qualche anno dopo i diari inediti di Hugo, non sorridessero di brani come questi, scritti durante l'assedio di Parigi: "17 ottobre 1870. Domani in Place de la Concorde si lancerà un pallone-posta che si chiama Victor Hugo. Con questo pallone invio una lettera a Londra. 20 ottobre. I giornali annunciano che il pallone Victor Hugo è andato a cadere in Belgio. E' il primo pallone-posta che oltrepassa la frontiera".


“la Repubblica”, 9 febbraio 1985 

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