1.3.14

Camorra. Tano Grasso recensisce la "Storia" del Barbagallo

La Storia della camorra di Francesco Barbagallo non è solo un fondamentale libro scritto da uno dei più autorevoli storici italiani, ma un’occasione per riflettere su temi e questioni al di là della materia studiata. C’era bisogno di un’opera di questo tipo, intanto per definire meglio alcune problematiche storiche.
Non a caso Barbagallo va di netto sulla questione delle origini, che ha sempre suscitato fascinazione in misura proporzionale all’evocazione di miti e leggende collocate magari indietro nei secoli, in un tempo non definito. La camorra come attività distinta dalla criminalità comune si diffuse «presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento». Ricondurre il momento della genesi ai tormentati anni a cavallo tra vecchio regime borbonico e nuovo Stato italiano, significa, da un lato, cogliere nel disordine e nell’assenza di certezze di quegli anni quel «vuoto» che favorì l’affermazione della nuova realtà criminale e, dall’altro, collocare questo fenomeno sulla stessa linea di altri simili fenomeni, a partire dalla mafia siciliana.
Così come sono definiti gli inizi, altrettanto efficacemente è rappresentata quella fase che porta Barbagallo a parlare di fine della «camorra storica» nei primi decenni del Novecento, a partire dal famoso processo Cuocolo. In questo passaggio si manifesta una forte differenziazione tra camorra e mafia siciliana: se nell’isola la storia della mafia dopo la repressione del fascismo procede sostanzialmente senza significative rotture al punto da riemergere dall’«inabissamento» alla prima occasione (lo sbarco degli alleati), per la camorra si deve «parlare di una netta soluzione di continuità». Questa distinzione, ci spiega lo storico, dipende dal fatto che «la camorra ottocentesca resta comunque un fenomeno marginale e subalterno rispetto ai poteri dominanti», mentre la mafia si definisce in quel momento in cui acquisisce un’autonomia criminale e sociale e, per dirla con Franchetti, l’esercizio della violenza si «democratizza» e diviene un elemento costitutivo del sistema di potere.
Questo dato, la fine della camorra «storica», contro i rassegnati fatalismi, ci indica una concreta possibilità: non è ineluttabile una crescita criminale delle organizzazioni mafiose. Ci sono momenti in cui la loro esistenza dipende dalla volontà di contrastarle: alle «classi abbienti», diceva sempre Franchetti a proposito della Sicilia, «basterebbe agire d’accordo per tre giorni» per eliminare il fenomeno. Questo riferimento alla Sicilia descritta nel 1876 ha molto a che fare con il nostro discorrere sulla camorra di oggi. Perché c’è un altro momento, acutamente analizzato da Barbagallo, su cui è necessario soffermarsi e riguarda i modi in cui un fenomeno morto riappare per stagliarsi nei tempi della modernità criminale; e questo passaggio storico chiama direttamente in causa le classi dirigenti campane.
Una criminalità tollerata tra gli anni Sessanta e Settanta (contrabbando di sigarette), ad un certo punto diventa «maggiorenne» e lo diventa, in primo luogo attraverso il ruolo decisivo svolto dai mafiosi siciliani che riconvertono l’efficiente rete del contrabbando in quella assai più redditizia dei traffici di stupefacenti. Ma il salto di qualità decisivo si compie, per le responsabilità di una classe politica e imprenditoriale, negli anni della ricostruzione post-sismica, quando la camorra diventa un elemento, come in Sicilia, costitutivo della vita a tutti i livelli: imprenditoriali e politici in primis. E così si arriva ai nostri giorni.
Questa Storia, dicevamo, sollecita riflessioni più ampie. Una delle cose più interessanti del libro è la costante connessione tra analisi del fenomeno criminale e analisi delle dinamiche del Mezzogiorno, perché la questione meridionale, per quanto rimossa, si identifica in larga parte con la questione criminale: le mafie costituiscono il più serio ostacolo alle possibilità di crescita delle imprese e alla circolazione di capitali; in un mercato dal quale viene cancellata la libertà d’impresa è difficilissimo attirare investimenti e, soprattutto, far crescere le imprese locali.
Ma, e forse è la cosa che più ci ha intrigato, questa Storia è un duro atto di denuncia politica. Non si leggono qui le solite parole d’indignazione ma di lucida analisi di un percorso che ha visto la politica divenire «un potere secondario», rinunciando ad esercitare in prima persona un’attività contro un fenomeno che non è solo criminale e il cui contrasto non può essere delegato a poliziotti e magistrati.


Corriere del Mezzogiorno Giovedì 29 Aprile 2010 

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