12.3.14

Françoise Hardy 50 anni dopo. Intervista di Guido Michelone

Nel recente film Moonrise Kingdom-Una fuga d’amore (2012) diretto da Wes Anderson con Bruce Willis, Edward Norton, Harvey Keitel, Tilda Swinton, Bill Murray, il leit-motiv è la dolce ballata Le temps de l'amour che una Françoise Hardy appena diciottenne incide a Parigi nel 1962; ma non è il suo primo successo: la ragazza, che già lavora come fotomodella, qualche mese prima registra Tous les garçons et les filles, che viene trasmessa, con grandissimi ascolti, un sabato in prime-time alla televisione francese nel corso della diretta elettorale. La canzone, altra dolente ballad, diviene ben presto l’emblema di un disagio adolescenziale condiviso: l’esistenzialismo à la page riesce addirittura a vendere oltre due milioni di dischi in tutto il mondo, con una cover italiana - Quelli della mia età – interpretata dalla stessa Hardy. 
La bellissima Françoise, suo malgrado, diventa un simbolo della cosiddetta generazione yé-yé (più o meno il corrispettivo del beat inglese) mietendo successi a 45 giri per un intero decennio: con Quelli della mia età, L'amore va, Parlami di te e altre 29 canzoni è famosa anche in Italia, dove partecipa a festival, cantagiri, trasmissioni radiotelevisive, innamorandosi di un brano come Il ragazzo della via Gluck, che traduce e canta in francese (La maison où j'ai grandi).
Da allora, dopo i 33 brani cantanti nella lingua di Dante (e oggi introvabili su cd), Françoise Hardy scompare dalle scene italiane, mentre in Francia continua a lavorare in ambito musicale, trasformandosi via via in una cantautrice raffinata che comunque riesce ancora a porre al centro della propria attenzione le questioni amorose con un acume psicologico; sussurra, con vocina flebile, testi a volte serissimi, e così non può certo sorprendere, quando, nel 2012, debutta anche come narratrice con un romanzo semi-autobiografico dal titolo L’amour fou, prontamente pubblicato anche in Italia - L’amore folle - dalla milanese Edizioni Clichy con l’ottima traduzione di Antonella Conti. Ed è proprio questo il primo vero grande ritorno in Italia, dopo oltre quarant’anni, dell’algida cantante, la cui autobiografia musicale Le désespoir des singes (2009), che in Francia vende subito 400mila copie, latita ancora vergognosamente dai cataloghi dell’editoria nostrana, così come il primo importante libro sui di lei, Françoise Hardy superstar et ermite (1986) scritto dal rockman Étienne Daho assieme a Jérôme Soligny, per non parlare dei due più recenti volumi illustrati Rock made in France (Epa, 2010) di Patrick Maché e Les femmes de la chanson (Textuel, 2011) di Yves Borowic. Del resto anche il cd L’amour fou (Virgin) con dieci brani ispirati al libro è reperibile solo d’importazione.
Tuttavia il ritorno della Hardy in Italia è in un certo qual modo preparato, nel corso di un decennio, sia dalla pubblicità - dove la ripresa di Comme te dire adieu (scritta peraltro dal geniale Serge Gainsbourg) allieta vari spot pubbilcitari - sia dal cinema con due film come Se devo essere sincera (2004) di Davide Ferrario e Ricordati di me (2003) di Gabriele Muccino dove sono presenti i brani La bilancia dell'amore, Ce pétit coeur, I sentimenti (nel primo) e Des ronds dans l'eau (nel secondo).
Françoise è dunque, dopo la grande stagione postbellica (ossia Edith Piaf e Juliette Greco), l’unica diva francese a contrastare il predominio angloamericano nel campo della musica leggera, con brani seducenti perché affrontano candidamente temi generazionali dal punto di vista di una ragazzina che recita sino in fondo, con un velo di oggettiva malinconia, il ruolo dell’anima triste, delusa, vittima insomma dell’egoismo e dell’incomprensione dei maschi e degli adulti.
Sembra tutto vero, ma qualcuno, già all’epoca, mette in dubbio la sincerità dell’interprete, perché si tratta di una femmina dalla bellezza straordinaria, dalla raffinata eleganza, dai modi cortesi e dallo spirito modernista: sono tutte qualità che dovrebbero respingere ogni problematicità esistenziale. Eppure un fondo di verità - o anche qualcosa di più - esiste già nella protagonista di Tous les garçons et les filles: ora con L’amore folle affronta di fatto gli stessi temi con un’analoga propensione alla mancanza di autostima fino a mostrare comportamenti quasi distruttivi. Ma la Hardy, con la stesura del libro sembra uscire dal tunnel, nel senso che la scrittura opera talvolta un effetto catartico, per  affrontare e risolvere problemi spinosi a livello psicologico.
Il libro di Françoise è la classica love story tra una «lei» (evocata prima in terza, poi nel finale in prima persona) e un «lui» chiamato «signor X», il quale, stando alle parole dell’autrice sarebbe la sintesi dei suoi tre grandi amori (il fotografo Jean-Marie Périer, il cantante Jacques Dutronc e...); la storia è virtuosisticamente narrata mediante l’amore folle della protagonista verso un uomo posseduto anch’egli da bruschi, inspiegabili, antipatici cedimenti relazionali; e l’amour fou prosegue – quasi diaristicamente - nella strategie messe in atto dal personaggio femminile per lenire il proprio dolore, senza rinunciare a un sentimento che di fatto non riesce (o forse non vuole) governare. Anche in traduzione italiana, L’amore folle rende bene il percorso stilistico dell’autrice che su un tema praticamente sfruttatissimo nella storia letteraria fin dall’antichità sa essere fresca, nuova, originale grazie a una prosa studiatissima anche nel riflettere dolori, crudeltà, passioni, inquietudini di un gioco cerebrale terribile.
In questa intervista - in esclusiva per Alias - la stessa Françoise Hardy spiega alcune ragioni di un libro a lei caro, oltre soffermarsi qua e là su un passato importante.

Cosa rammenta dell’Italia, dove lei fu protagonista negli anni Sessanta?
Mi ricordo soprattutto le varie edizioni del Cantagiro e l’impatto incredibile sul pubblico di artisti come Adriano Celentano come pure di Gianni Morandi che aveva una canzone sublime, Se non avesssi più te composta da Ennio Morricone. E poi era molto divertente, e anche molto strano sfilare a 20 chilometri all’ora su automobili decapottate, con tutta la gente ammassata ai bordi delle strade proprio come succedeva, e succede, per le gare ciclistiche.

È stato difficile il recente passaggio da cantautrice ad autrice di libri?
Scrivere in prosa è molto diverso dallo scrivere testi per canzoni, testi che devono catturare lo spirito della melodia e mettersi al suo servizio, rispettando ogni contrasto ritmico. Anche se tento di farlo ugualmente conciso e strutturato come il testo di una canzone, anche se la musicalità è ugualmente importante nella prosa proprio come per la canzone, il testo narrativo mi sembra perfettibile quasi all’infinito, mentre questo non vale per una canzonetta.

Pur leggendo il suo romanzo, «L’amour fou», in lingua italiana, si riesce a percepire un livello stilistico notevole, grazie a una perfezione formale incredibile. Ha lavorato molto sulla scrittura?
Quello che dite non può farmi che estremamente piacere! Ho lavorato tantissimo sulla forma, sullo stile, tornandovi sopra quasi senza tregua, e sono stata ferita dal fatto che nessun critico letterario francese si sia degnato di soffermarsi in tal senso sul mio libro.

Passiamo ai contenuti: cosa c’è di veramente autobiografico nel libro?
Molto! Se non mi sento una scrittrice è solo perché non ho immaginazione e non sarei mai capace di scrivere su qualcosa che non sia in stretto rapporto con il mio vissuto.

●Ci può raccontare un aneddoto legato al libro che non ha ancora raccontato a nessuno?
Ho grossi problemi di salute dal 2004 che, tra le altre cose, m’impediscono di viaggiare. Nel 2011 ho consultato una psicanalista per qualche tempo. Un giorno le ho parlato di quello che in seguito è poi diventato L’amour fou, romanzo cominciato da oltre venticinque anni, ma con una forma che ho cambiato quasi regolarmente da allora a oggi. Sottolineandole l’aspetto intimo del romanzo, le ho confidato che non avevo voglia di mettere in imbarazzo mio figlio con ciò che avrebbe potuto essere pubblicato; inoltre mi sentivo molto male fisicamente, avevo l’impressione di poter morire da un giorno all’altro, ero quindi tentata di buttare via il manoscritto senza troppi rimorsi. "Ti impedisco di fare una cosa simile!" mi ha gridato.

E quindi ha seguito il consiglio della piscanalista…
Così, quando L’amour fou è uscito - e le confesso che all’inizio non avevo davvero né l’intenzione né la voglia di pubblicarlo - gliene ho inviato una copia, perché, senza di lei (la psicanalista) questo libro non sarebbe mai esistito. Dopo averlo letto, mi ha fatto il miglior complimento possibile, dicendomi che ne aveva caldeggiato la lettura a molti suoi pazienti.

●«L’amour fou» in effetti trabocca di cultura letteraria sul piano stlilistico, ma quali sono gli autori che ama leggere di più?
Direi George Eliot, Henry James, Edith Wharton, Vita Sackville-West, Rosamond Lehmann e in un genere ben diverso Higgins Clark o Anne Perry.

Conosce qualche autore italiano?
Ho scoperto di recente La coscienza di Zeno di Italo Svevo, un romanzo strano che però mi ha coinvolta. Per quanto riguarda la letteratura italiana adoro anche Seta di Alessandro Baricco e molto prima Il disprezzo, forse il mio romanzo preferito di Alberto Moravia al quale l’omonimo film di Jean-Luc Godard deve tutto.

●E ci sono dei romanzieri che possono averla influenzata?
Si tratta di un circolo vizioso. Sono attratta dai romanzieri che raccontano e sviluppano in lungo e in largo ciò che mi interessa di più: l’amore impossibile.

●Ma allora cos’è l’amore per Francoise Hardy?
Questione vastissima e parola fin troppo abusata! Molta gente che crede di amare il proprio partner o il figlio lo trasformano in sfortuna o infelicità a causa della loro possessività, della gelosia, del modo di soffocare l’altro, di impedirgli di crescere, di vivere la sua vita. L’ha sottolineato assai bene il grande scrittore Sandor Marai: "L'amore è quasi sempre un immenso egoismo". E non dimentico mai quest’ingiunzione di una guida spirituale di altissimo livello: "Lavorate di più sul ‘discernimento’ che sull’amore, perché se l’amore non è guidato dal discernimento, non è un amore vero. Ma senza dubbio si diventa capaci di amore vero solo dopo tutte le prove di cui un amore egoista è portatore quasi per obbligo". L’amore vero è un lungo apprendistato e la vita è troppo breve.

●Leggendo «L’amore folle» alla fine si scopre dunque il ritratto di una donna sofferente che sembra l’opposto dell’immagine che abbiamo di lei. Come si spiega questo contrasto?
L’immagine che lei o altri italiani hanno oggi di me non corrisponde in niente o non corrisponde più a quella, assai più giusta, che hanno di me in Francia. E ho sempre cantato canzoni sentimentali tristi, la cui ispirazione - come quella del mio romanzo - vengono direttamente dalla mia vita personale, che è stata ed è difficile.

●Purtroppo l’altro suo libro - l’autobiografia - non è ancora tradotto in italiano; ma in breve potrebbe dirci come ha vissuto la musica cosiddetta yé-yé degli anni Sessanta? Era veramente un periodo mitico o quanto meno favoloso, come certa pubblicistica ancora lo dipinge?
Quando si è molto giovani – ciò che ero effettivamente durante i Sixties - non si presta attenzione alle caratteristiche dell’epoca in cui ci si trova. Ci sono poi ricordi che affiorano molto più tardi; e talvolta confrontiamo ciò che avviene oggi con ciò che accadeva ieri; e allora ci si rende conto che era un’epoca meno dura a priori. Innanzitutto eravamo molto meno numerosi, per quanto riguarda le
professioni ritenute artistiche. C’era meno competizione e meno disoccupazione. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio e ogni epoca ha i propri inconvenienti sui vantaggi veri e propri. Diciamo che la creatività era molto più ricca, più ispirata negli anni Sessanta rispetto a oggigiorno.

●C’era amicizia tra lei e gli altri grandi miti di quell’epoca, che so, nel cinema, Brigitte Bardot o Jean-Luc Godard?
Con Brigitte Bardot ci siamo incrociate qualche volta, ed era molto spontanea, calorosa, simpaticissima. L’esatto contrario di un Godard, che ho visto molte volte, anche sul set, ma era taciturno, freddo e antipatico.

●Ma che effetto le faceva all’epoca leggere sui giornali o sentire alla televisione che lei era considerata la donna più bella del mondo?
Nessuno, perché quest’asserzione era totalmente ridicola. Non c’è una donna più bella del mondo, nemmeno il più grande attore o il maggior pittore. Fortunatamente…


“alias il manifesto”, 8 agosto 2013

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