16.3.14

Giovanni Raboni e l’arcangelo Calabresi (Massimo Raffaeli)

L'arcangelo Calabresi: a proposito di una poesia era il titolo di una relazione letta da Massimo Raffaeli  a Firenze nell’ottobre 2005, durante una giornata dedicata al poeta milanese per il primo anniversario della morte. “Il manifesto” ne pubblicò come anticipazione una sintesi che qui riprendo. (S.L.L)
Milano, gennaio 1970. Giovanni Raboni fermato dopo una manifestazione sulla "strage di stato"
Il pieno riconoscimento dell'opera poetica di Giovanni Raboni, tra le massime dell'estremo Novecento italiano, il fatto che sia entrata nel senso comune col segno di un lancinante esistenzialismo, anche se ben smarcato dalla parola di Montale e persino da quella del suo più antico maestro-compagno di via (ovviamente Vittorio Sereni), coincidono con la ricezione di una testualità che rinforza nel tempo i tratti della dissimulazione e dell'understatement linguistico-stilistico, specie nella raccolta centrale di autoantologia e bilancio, A tanto caro sangue (1988). Tutto ciò ha forse lasciato si dimenticasse che una radice fervida della sua poesia, fermentante sottotraccia, corrisponde al sentimento più istantaneo della politica: un esser-ci, dove il mondo esterno (i poteri, i segni scritti, le parole d'ordine, le crude azioni del potere) precipita sul soggetto, lo segna e lo disorienta, si direbbe lo rinserra nella prigione dell'«io» proprio nel momento in cui avrebbe voluto emanciparsene.
In tutta la poesia di Raboni c'è un «io» che si slancia mutamente verso un «noi», senza mai volerlo o poterlo pronunciare, c'è un sospetto costante di deragliamento dalla percezione puramente individuale delle cose, detta cioè in verticale, che nemmeno ha bisogno di tematizzazione perché si manifesta nell'improvviso di un batticuore, di un mancamento, ovvero di un sentirsi venir meno, di colpo, la voce e le forze, come si trattasse d'un lento dissanguarsi. La posizione di Raboni, borghese e cattolico indocile, poi collaboratore dei «Quaderni Piacentini» e vicino alle formazioni della Nuova sinistra, appare dunque la più anti-ideologica perché è quella di uno stoico: non nasce da una riflessione astratta ma appunto da una concreta posizione, da un essere semplicemente lì, in mezzo alla strada e alle cose di tutti, percependone il riflesso interno e la prolungata vibrazione.
In questo, Cadenza d'inganno (1975) è la sua raccolta più politica ed è anche quella dove il procedimento, indipendentemente dagli esiti qualitativi, denuncia l'origine e il meccanismo del percepire lo stato presente della Polis. (Va detto pure, per inciso, che «inganno» non solo è una parola chiave dell'autore ma l'emblema di un decennio caratterizzato dalla cosiddetta strategia della tensione, dal romanzo delle stragi, dall'insorgere imprevisto del terrorismo e di una generalizzata repressione; «inganno» è sinonimo di disorientamento come poi la parola chiave «inverno» lo sarà del generale ripiegamento nel decennio successivo, testimoniato dai titoli di alcuni poeti allora esordienti, da Antonella Anedda a Fabio Pusterla, da Francesco Scarabicchi a Remo Pagnanelli).
Riprendendo lo spunto di un geniale non addetto ai lavori, Piergiorgio Bellocchio, così Pier Vincenzo Mengaldo scriveva di Cadenza d'inganno nella scheda monografica dell'antologia Poeti italiani del Novecento (1978) che per prima ha consacrato il percorso di Raboni: «Non per nulla l'"impegno" più esplicito coagula attorno ad episodi di repressione e onnipotenza poliziesca del Potere; e l'io oscilla fra l'auto-annullamento nell'impersonalità del referto o denuncia, e la ritrazione in un privato che sempre più acquisisce anch'esso i connotati della vita vissuta come automatismo sonnambulo». Nel saggio ricordato, Bellocchio parlava giustamente di un alternarsi del discorso indiretto (maggioritario nella poesia di Raboni ) e invece di un discorso diretto minoritario, lasciato volentieri allo stadio plastico della materia prima. È il caso ad esempio di una poesia, probabilmente scritta a caldo, L'alibi del morto, dedicata alla morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, volato giù da una finestra della questura di Milano la notte fra il 15 e 16 dicembre del 1969. Pinelli era da due giorni abusivamente trattenuto in questura (dal questore Guida, dal capo della sezione politica Allegra, dal commissario Luigi Calabresi) per le indagini relative alla strage di piazza Fontana, cui peraltro rimaneva del tutto estraneo. I suoi compagni allora sapevano, e oggi purtroppo tutti sappiamo, che era innocente e che venne ammazzato. Sappiamo altrettanto (da una pagina in presa diretta di Fortini, ora in L'ospite ingrato secondo) che Raboni aveva preso parte, con Vittorio Sereni, ai funerali di Pinelli nel cimitero del Musocco: «Al campo 76 ci sarà stato un centinaio di persone, un gruppo cupo sulla terra calpestata, sotto il cielo verde e viola. Su di un viale poco discosto, sotto grandi pioppi ignudi, una ventina di agenti in borghese guardavano i compagni del morto. Erano ai due lati di una trincea. (...) Dall'altra parte del fossato ho rivisto la testa candida di Giovanni. Scivolando sulla fanghiglia, facendomi largo tra i fotografi, anch'io sono arrivato sul ciglio della fossa. Le bandiere nere si abbassavano».
Tutta esplicita e scandita dal discorso diretto, L'alibi del morto è la poesia meno raboniana che l'attuale senso comune possa immaginare e perciò, paradossalmente, la più rivelatrice di un antico impulso politico e delle sue relative procedure. Il protocollo è frontale, così secco e disossato da sembrare una variazione (tramite Fortini) da Bertolt Brecht, la cadenza ossessiva e anaforica insieme con le soluzioni di montaggio dicono, viceversa, una adiacenza con le partiture del Roversi di Descrizioni in atto e i tracciati di Giorgio Cesarano, due grandi figure cui il poeta milanese non ha mai lesinato né attenzione né stima, come ci ricorda il recente e bellissimo volume di pagine saggistiche intitolato La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano (a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti).
Ecco la quartina iniziale, laddove il «Giuda» può essere tanto l'allegoria di Calabresi quanto l'acre metaplasmo che storpia il cognome del questore Guida: solo da ricordare che il primo era presente nella stanza da cui volò Pinelli, il secondo invece era assente. Dunque: «Giuda dice che l'alibi del morto/ era crollato: per questo motivo è sceso nel cortile./ Ma l'alibi era buono; il morto è riabilitato:/ nessuno dice che Giuda aveva torto./»; i versi di clausola sono i seguenti: «Non predicate la dittatura di una classe sull'altra, non è il vostro lavoro./ Non dite niente che possa suscitare/ l'odio di classe: ci pensano già loro.// Parlo per me ma forse anche per voi./ Amici, diciamo la verità:/ di sentirci oppressi ci sentiamo felici;/ ci importa adesso esser vittime, non esser liberi poi.» Qui la posizione stoica di Raboni muta il falso ideologico di massa o meglio una presunta coscienza di classe (che invece è riflesso condizionato, talora vittimismo, alibi rassicurante) nella coscienza elementare di un'impasse, il che vuol dire anche che la posizione stoica diviene apertamente dialettica: è come se al poeta non tanto o non solo premesse una commemorazione di Pinelli, quanto la fuoruscita da una logica che risulta mortale, alla lettera, perché da vittima esige altra vittima, in un massacro speculare/complementare potenzialmente senza fine.
Pochi mesi dopo, in una poesia consanguinea all'Alibi del morto (cioè Notizie false e tendenziose, scritta dopo l'oscura morte di Feltrinelli e anch'essa compresa in Cadenza d'inganno, libro che succede all'assassinio di Luigi Calabresi) il poeta vedrà se stesso ormai spiazzato e fuori gioco, isolato in campagna, escluso dalla Polis; in quel luogo defilato si agitano spettri di vittime e carnefici, esplode all'improvviso un gioco delle parti funerario. Lo stoicismo (lo spirito dialettico dissimulato) sembra però suggerirgli che laddove non c'è pietas e rispetto/riconoscimento delle «creature», lì c'è solo la dinamica della ritorsione, ora suffragata dal codice penale ora mascherata da lotta di classe: fissando la fiammella della a stufa a kerosene (l'ambiguo gesto del bruciare per essere riscaldati) Raboni fissa in realtà la meccanica del cannibalismo. Il suo medesimo stoicismo implica il fatto che chiunque pianga Pinelli, ucciso da un'istituzione dello stato, chiunque continui a sentirlo un «compagno» e insieme una disarmata «creatura», non può, insieme con gli imperativi della solidarietà, non sentirne anche e nello stesso tempo un fisico rimorso, un oscuro e progressivo senso di colpa. Vale a dire che non può, in ogni senso, chiamarsene fuori.
Forse è così che Giovanni Raboni ha scritto i suoi versi più stremati e difficili, i più duri da leggere a tanta distanza di anni: «Vivo, stando in campagna, la mia morte./ Appeso a trespoli, aiole, / alle radici del glicine, ai raggi della ruota,/ aspetto (il barattolo del nescafé / a portata di mano, l'acciarino/ fra le dita del piede) che l'arcangelo Calabresi scenda a giudicarmi.»

“il manifesto”, 19.10.2005

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