1914. Lo zar di tutte le Russie Nicola II Romanov con la sua famiglia |
Probabilmente l’autrice
dell’articolo, recensione di un libro sul tesoro dei Romanov, non solo
simpatizza con i membri della famiglia dello zar condannati a morte dai
bolscevichi – cosa naturale per chi nutre sentimenti umanitari – ma fortemente
antipatizza per gli esecutori della condanna, chiamati “carnefici”, anche se
dal suo stesso racconto traspare come nessuna letizia provassero nel tragico
ufficio ch’era stato loro assegnato. Ma le informazioni che il pezzo contiene
sono, in ogni caso, assai illuminanti sulla secolare ingordigia dei “succhion
coronati” contro cui si era diretta l’ira del popolo e la Rivoluzione del 1917.
L’attaccamento all’oro e ai diamanti dei condannati a morte ricorda il tragico
attaccamento al denaro e alla proprietà dei borghesi nel romanzo naturalista
dell’Ottocento. (S.L.L.)
I gioielli cuciti negli abiti
facevano rimbalzare i proiettili sui corpi delle donne che, ferite e
spaventate, non smettevano di dibattersi in preda al dolore e al terrore. «Il
mio aiutante dovette consumare un intero caricatore e poi finirle a colpi di
baionetta», testimoniò a massacro avvenuto il commissario Jurovskij. A
giustiziare nella notte del 16 luglio 1918 l'ultimo zar di tutte le Russie,
Nicola II Romanov (il boia coronato), con l'intera sua famiglia (moglie, cinque
figli e quattro persone del seguito) fu un commando di Soviet degli Urali fatto
da operai, contadini e guardie dell'armata rossa. Queste ultime, però, si erano
rifiutate di sparare sulle granduchesse adolescenti e sul giovane zarevic.
Jurovskij dovette chiamare ex-prigionieri di guerra austro-unga rici che
avevano aderito alla Rivoluzione e ai quali spiegò tutto in tedesco (la lingua
madre della zarina, nipote della regina Vittoria). L'esecuzione durò venti
minuti.
I cadaveri, caricati su una
camionetta, furono gettati in una cava poco distante da Ekaterinburg, dove la
famiglia imperiale aveva trascorso agli arresti domiciliari gli ultimi tre mesi
di vita. Ma dai corsetti traforati dai proiettili uscivano strani bagliori:
erano diamanti. I soldati si affrettarono a svestire i corpi e a rimuovere i
preziosi; trovarono anche svariati fili delle leggendarie perle della zarina
Alessandra cuciti nella stoffa della cintura. Jurovskij tornò in paese con nove
chili di gioielli in borsa. Quando l'Armata bianca giunse - una settimana dopo
- sul luogo della sepoltura vi trovò alcune pietre cadute nella confusione e un
diamante a goccia di 12 carati, sfuggito agli occhi dei carnefici.
A far rivivere la storia dei
Romanov, raccontata attraverso i loro gioielli, è un avvincente libro di
Stefano Papi, splendidamente illustrato, uscito per i tipi di Thames & Hudson
e Skira in occasione del quarto centenario dell'antica dinastia russa
(1613-2013).
La linea maschile dei Romanov
(1613-1730) si era estinta con Pietro II, mentre quella femminile con la zarina
Elisabetta nel 1762. A essa succedette il nipote Pietro Ulrico di
Holstein-Gottorp, del Casato degli Oldenburg, la cui moglie sarà l’imperatrice
Caterina la Grande. Pietro III si sarebbe dovuto chiamare Holstein-Gottorp-Romanov,
ma egli e tutti i suoi successori mantennero l'originario cognome. I Romanov regnarono
fino al 1917, quando vennero deposti durante la rivoluzione di febbraio: molti
di loro furono uccisi dopo la Rivoluzione d'Ottobre a opera dei bolscevichi
perché «nemici del popolo» (si calcola una ventina di persone, circa un terzo
degli adulti della famiglia imperiale), altri fuggirono in Francia, Inghilterra
e Stati Uniti.
Dopo la caduta dello zar, il
favoloso tesoro dei Romanov - simbolo dell'anrien regime fatto di oro, diamanti
e mirabili pietre preziose - divenne proprietà del popolo russo. Nove enormi
forzieri, colmi di oggetti di inestimabile valore, erano stati prelevati
dall'Armeria del Cremlino di Mosca, portati in un luogo sicuro e lì custoditi
fino al 1922. Nel settembre di quell'anno una fotografia pubblicata sulla
rivista francese «L'Illustration» li mostrava sparsi su un tavolo, sotto
l'occhio vigile dei membri del Comitato governativo: furono smontati, pesati,
inventariati e valutati da Fabergé per un valore complessivo di circa 60
miliardi di dollari! Un terzo dei 63 membri del comitato, però, si era buttato
in traffici illeciti di gioielli e fu necessario ricominciare da capo. Alla
guida del comitato "epurato" fu nominato un accademico di spicco, Aleksandr
E. Fersman e, secondo i servizi di intelligence francesi, il tesoro fu stimato
in sette miliardi di franchi.
Come un segugio, sfogliando
documenti d'archivio e vecchie fotografie, Stefano Papi (I gioielli dei Romanov. La famiglia e la corte, Skira, Milano,
2013) ricostruisce il corpus dei gioielli della Corona imperiale, compresi
quelli rinvenuti negli appartamenti privati dell'imperatrice Maria Fedorovna la
danese, (madre di Nicola II e moglie di Alessandro III) a Palazzo Anickov, dóve
li aveva fatti trasferire per suo uso privato, violando un'antica consuetudine.
Il pezzo più considerevole era uno zaffiro di 260 carati nella tipica montatura
russa, circondata da 18 diamanti di taglio antico.
Dai tempi di Caterina la Grande e
fino a Nicola II ogni occasione fu buona per organizzare feste a corre e
commissionare parure ai gioiellieri di fiducia: lo svizzero Jérémie Pauzié,
Bolin - il miglior artigiano di San Pietroburgo, Friedrich Koechli, il
miniaturista Vasilij Zuev, l'argentiere Johann Viktor Aarne e i francesi
Fabergé, Carrier, Boucheron, Chaumet. Una tabacchiera, una scatola, un uovo
pasquale o un collier suggellavano incoronazioni, anniversari, compleanni,
onomastici, fidanzamenti, matrimoni, battesimi, amori semiclandestini (come
quello del giovane Nicola con la ballerina Matilda Ksesinskaja) o uscite
galanti al Grand Prix di Parigi (come quelle del granduca Aleksej
Aleksandrovic, zio dello zar Nicola II, con la cantante Lina Cavalieri).
I gioielli "vecchi" venivano smontati e ricreati secondo le mode del momento, utilizzando meravigliose pietre sciolte, custodite nel Deposito del Gabinetto Imperiale, l'istituzione amministrativa più importante della corte voluta da Pietro il Grande. Nel 1926 il governo bolscevico alienò parte dei gioielli della Corona e la prima asta pubblica si tenne a Londra da Christie's nel marzo 1927. Altri preziosi giunsero fortunosamente in Danimarca in un barattolo di cacao o a Londra, nascosti in un auto diplomatica svedese. Alcuni di questi finirono poi in testa o al collo di Wallis di Windsor, di Lady Lydia Deterding - moglie del magnate olandese del petrolio - o di Sua Maestà la regina Elisabetta II.
I gioielli "vecchi" venivano smontati e ricreati secondo le mode del momento, utilizzando meravigliose pietre sciolte, custodite nel Deposito del Gabinetto Imperiale, l'istituzione amministrativa più importante della corte voluta da Pietro il Grande. Nel 1926 il governo bolscevico alienò parte dei gioielli della Corona e la prima asta pubblica si tenne a Londra da Christie's nel marzo 1927. Altri preziosi giunsero fortunosamente in Danimarca in un barattolo di cacao o a Londra, nascosti in un auto diplomatica svedese. Alcuni di questi finirono poi in testa o al collo di Wallis di Windsor, di Lady Lydia Deterding - moglie del magnate olandese del petrolio - o di Sua Maestà la regina Elisabetta II.
Il sole 24 ore - Domenica 8 dicembre 2013
Salve, vorrei che mi spiegasse il titolo di questo suo articolo.
RispondiEliminaNon pare un po' eccessivo?
E' possibile che sia un titolo "gridato", ma non era mia intenzione. Come ho cercato di spiegare nella introduzione, a me questo morire con i gioielli indosso ricorda certi eroi della narrativa naturalista e verista dell'Ottocento, come il Mazzarò di Verga che morendo grida "Roba mia, vientene con me!".
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