10.3.14

Su Walter Binni (Massimo Raffaeli)

Walter Binni con Aldo Capitini
Non è facile comunicare a un lettore giovane o a uno studente di oggi che cosa volesse dire per un lettore o uno studente di quaranta o di trenta o solo di vent’anni fa il nome di Walter Binni. Nel senso comune di allora quel nome, il suo e di pochissimi altri maestri, veniva pronunciato col rispetto e l’entusiasmo dovuto a una presenza imprevista, tuttavia necessaria e persino salvifica per certi aspetti. Binni era al centro di una terna (tra Cesare Luporini e Sebastiano Timpanaro) con cui infatti si cercava di smaltire sottobanco, e con molta fatica nei licei di provincia, l’idea che Leopardi
fosse solo un classicista «bianco» e idillico, l’esclusivo cantore della greggia o di Silvia e Nerina, non il poeta dagli accenti paradossalmente eroici e il grande filosofo che era (e che invece negava la lettura da decenni vigente, ereditaria di Croce).
Ma di Binni si sapeva anche altro, per esempio che aveva scritto giovanissimo La poetica del decadentismo (1936), uno sguardo d’insieme e dall’interno che all’inizio degli anni settanta non ancora aveva eguali (specie al cospetto del manuale di Natalino Sapegno, reticente in materia, o della Guida al Novecento di Salvatore Guglielmino, la quale però rifuggiva da ogni impianto teorico e si prestava solamente al lavoro di cross country circa un secolo ancora tutto quanto da scoprire e da intendere).
Di Binni si sapeva infine che era un uomo di sinistra, un socialista vicino a Silone come a Lelio Basso, che era stato nella Resistenza e membro della Costituente, fra gli estensori dell’art. 33 a tutela della scuola pubblica, e che all’università di Roma, dopo l’assassinio dello studente Paolo Rossi nella primavera del ’66, aveva pronunciato l’orazione funebre denunciando tanto la gestione reazionaria dell’ateneo quanto i rigurgiti dello squadrismo neofascista con cui il rettorato e il governo del paese presumevano di opporsi a un processo di rinnovamento che muoveva dal basso e presto sarebbe culminato nella protesta frontale del ’68.
Che dunque biografia e bibliografia fossero per lui in concomitanza e perpetua tensione, che la forza dello studioso e l’impegno della persona pubblica convivessero da sempre nel segno di una sorprendente originalità, era già intuibile allora, ma risulta tuttora evidente non solo per la messe di ristampe e di testimonianze postume (e qui basterebbero i nomi di alcuni fra i suoi maggiori allievi all’università di Genova, Firenze e di Roma come Riccardo Scrivano, Giorgio Luti, Gennaro Savarese, Enrico Ghidetti, Giulio Ferroni, Novella Bellucci e Amedeo Quondam), ma anche, da ultimo, per il l’accurato profilo monografico che gli dedica suo figlio, il francesista Lanfranco Binni, La protesta di Walter Binni Una biografia (Il Ponte editore).
Il volume si divide in due parti: la prima concerne il decorso biografico vero e proprio, laddove Lanfranco lascia volentieri la parola al padre e agli scritti autobiografici – taluni splendidi, redatti in uno stile di vitrea e nondimeno appassionata chiarezza – che ne costellarono l’operosa vecchiaia, quella di un compagno ormai «senza tessera» ma indomito, sempre vicino alle posizioni della sinistra critica, a Rifondazione comunista e al manifesto che spesso ne ospitava i puntuali, pungenti, messaggi; la seconda comprende 164 lettere (trascelte da un corpus ingente, ora all’Archivio di Stato di Perugia) databili fra il ’31 e il ’97 e a firma di molti fra i protagonisti della cultura letteraria e politica del secolo, da Benedetto Croce a Gianfranco Contini, da Giorgio Pasquali a Sebastiano Timpanaro, da Pietro Nenni e Giuseppe Saragat a Ferruccio Parri, Norberto Bobbio e Pietro Ingrao, per tacere di Aldo Capitini che di Walter Binni fu letteralmente un mallevadore (come già attestava la cospicua scelta del Carteggio 1931-1968, a cura di L. Binni e L. Giuliani, Carocci 2007).
Sia pure scandita da eventi drammatici, la biografia intellettuale di Binni (Perugia 1913- Roma 1997) ha uno sviluppo immediatamente riconoscibile per la compresenza dello studioso e del militante, dimensioni speculari e vibranti che si ricompongono all’esterno come recto e verso. Di estrazione aristocratico-borghese, figlio di un notabile fascista, alla sua formazione cooperano sia la figura di Capitini (più per la traccia egualitaria e liberaldemocratica che per il pacifismo) sia, alla Normale di Pisa, quelle di Attilio Momigliano e di Luigi Russo con cui discute la celebre tesi sul decadentismo.
A Pisa il giovane Binni focalizza temi e autori che nella ricerca successiva non verranno mai meno: appunto il Cinquecento (fra un Ariosto agli antipodi della «armonia » crociana e la violenza plastica
di Michelangelo poeta), un Settecento polifonico e saturo di premonizioni romantiche con i suoi amatissimi Alfieri e Foscolo, poi ovviamente l’Ottocento che si intitola a Leopardi, specie nel frangente terminale che immette a La ginestra dove la poesia medesima diviene atto fondativo di un’etica, laica e atea, della solidarietà umana. È il Binni che ci confortava e che ci entusiasmava negli anni di liceo, fra La nuova poetica leopardiana (’47) e La protesta di Leopardi (’73), il libro della piena maturità e di un raggiunto equilibrio stilistico che riceve equamente l’eredità dei maestri, cioè l’espansione magnanima che era stata di Luigi Russo (ma da lui tradotta, dirà Ferroni, in una «tesa e anche disperata lezione»), insieme con l’abitudine all’ascolto appresa dall’indimenticabile Attilio Momigliano, «uomo di una bontà e mitezza supreme». Nel baricentro esatto del percorso sta, fondamentale, un contributo di metodo e di riflessione teorica, Poetica, critica e storia letteraria (’63), che mettendo a fuoco la nozione di «poetica» (sulla quale ragiona negli stessi anni, ma per tutt’altra via, Luciano Anceschi) da un lato si smarca dal generico contenutismo delle letture storiciste dall’altro evade dalla reclusione delle pratiche formaliste: l’analisi delle poetiche, per lo studioso perugino, «non riduce intellettualisticamente il valore originale della poesia, ma ne storicizza la concreta formazione e la vita dinamica nello studio della complessa tensione espressiva dei poeti e delle loro tendenze costruttive, del loro implicito ed esplicito prefigurarsi la traduzione poetica del proprio mondo interiore, delle proprie esigenze spirituali, culturali, storiche, in contatto con le tendenze più autentiche del loro tempo».
E qui, a titolo di esempio, basterebbe stralciare almeno altre due opere maggiori, Carducci e altri saggi (’60) e Monti poeta del consenso (’81) unitamente alla magistrale curatela del Giacomo Leopardi di Francesco De Sanctis (’50), il cui saggio introduttivo è pura metacritica e nel frattempo una sua prima autobiografia dissimulata.
Così sul manifesto del 28 novembre del ’97 Pietro Ingrao concluse il necrologio del vecchio amico e compagno di via: «Eravamo provinciali. Alcuni, come Walter Binni, ci aiutarono a districarci nella selva della cultura italiana moderna, a ricostruire un’altra storia dei poeti e della letteratura di questo paese. Chi dice che questo non conta? Certi versi brevi, certi libri sono stati una mina (e un allargamento di orizzonti) nella vicenda sanguinosa di questo paese. Serbare la memoria, abbiamo detto a noi stessi. Anche a costo di apparire fissati noiosi».
Non c’è altro da aggiungere.


alias – il manifesto, 29 settembre 2013

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