15.3.14

Voltaire. Mai lavorare per il re di Prussia (Stefano Malatesta)

Voltaire arrivò a Berlino, alla corte di Federico II di Prussia, nei 1750. Ne ripartì «profondamente deluso» tre anni dopo. Aveva creduto di trovare e d'intendersi con un principe illuminato e raffinato, un poeta, un nemico della superstizione, un uomo di stato pensieroso del bene dei suoi sudditi. Si trovò di fronte, come poi ricordò, un Mustafà, un Selim, un Solimano. Per lo scrittore, fu quella che viene definita «un'amara esperienza», simbolica e ammonitrice: «Cet échec», imparano i ragazzi francesi al liceo, «gli fece misurare il fossato tra filosofia e realismo politico».
Questa storia non convince: non ha nulla dell'esperienza e ha tutto dell'apologo. Quando Voltaire partì per la Prussia, aveva 56 anni, dei trascorsi alla Bastiglia e in esilio, ed era 1'ultimo uomo che si potesse fare delle illusioni su Federico II. Qualche anno prima lo aveva definito «il Salomone del nord», anche perché «gli epiteti non costavano niente». Era stato l'inventore del mito del despota illuminato, ma aveva sufficiente conoscenza degli ambienti delle Corti e degli usi del mondo per avere un'idea chiara di come sarebbe andata a finire.
Allora? Il fascino di questa spedizione berlinese sta nel fatto che venne tentata con il cuore, e non con il cervello, dall'uomo più intelligente d'Europa, sotto la spinta della curiosità, della vanità, dello snobismo. Lui d'altronde, ne era perfettamente consapevole. «Federico aveva dello spirito, della grazia», scrisse poi, «e in più era re, fatto che esercita sempre un gran fascino data l'umana debolezza». Giunto a Postdam, nel giugno del 1750, venne accolto come Astolfo nel palazzo di Alcina. «Alloggiare nell'appartamento che era stato del maresciallo di Sassonia, avere a mia disposizione i cuochi del re quando volevo mangiare in camera, e i suoi cocchieri quando volevo andare a spasso... lavoravo due ore al giorno con Sua Maestà; correggevo tutte le sue opere, non mancando mai di molto elogiare quanto vi era di buono, allorché cancellavo tutto quello che non valeva niente ». Questo voleva Francois Marie Arouet, figlio di notaio: la chiave d'argento dorato da ciambellano pendente dalla livrea, la grande croce del merito intorno al collo, giocare al consigliere politico senza pretendere che il re seguisse i suoi sarcasmi. E poi c'erano i ventimila franchi l'anno di pensione. Si sentiva arrivato: che carriera!
Vera «avventura» settecentesca, i tre anni di Voltaire a Berlino sono stati raccontati da lui stesso in molte lettere a Madame Denis e » un libretto, Mémoires pour servir à la vie di M. de Voltaire, écrits par lui-mème, pubblicato anche con il titolo Vie privée du roi de Prusse. Mai tradotto in italiano, il libro sta ora per venire pubblicato dalla casa editrice Sellerio (Memorie, pagg. 100): cento pagine rapide, vivacissime, maliziose, con evidente funzione apologetica e a futura memoria per i posteri sui rapporti dell'autore con Federico II. Ma anche autoironiche, disincantate, sul suo mestiere e su quello più vasto della politica e dei regnanti.
Le Memorie iniziano con brevi tocchi sul padre di Federico II, Federio Guglielmo, un «vandalo» feroce volgare e sadico, che trascorreva le sue giornate passando in rivista granatieri alti un metro e novanta. «Una volta passate in rivista le truppe, Federico Guglielmo andava a passeggio per la città: tutti se la squagliavano rapidamente: se incontrava una donna, le domandava perché stava a perdere il suo tempo in mezzo alla strada: "Vattene a casa, pezzente; una donna onesta deve stare in seno alla famiglia" ». E accompagnava la ramanzina o con un bel ceffone, o con una pedata sul ventre, o con qualche bastonata.
Il figlio, ovviamente, era, o sembrava essere, il suo opposto. Scriveva trattati di metafisica, di storia, di politica in versi e intratteneva corrispondenza con i letterati di tutt'Europa. Diventato re, conduceva una vita sempre uguale; sonno spartano, su una branda, sveglia alle cinque del mattino. «Poi lo stoico concedeva qualche momento alla setta di Epicuro: egli faceva venire due o tre favoriti a prendere il caffè insieme. Quello a cui gettava il fazzoletto rimaneva per mezzo quarto d'ora a tu per tu con lui. Le cose non si spingevano fino alle estreme conseguenze, visto che il principe, quando suo padre era vivo, aveva subito forti maltrattamenti a causa dei suoi amori passeggeri, e ne era uscito malconcio. Non poteva andare a fondo; bisognava che si fermasse agli approcci. Ben presto quei divertimenti da scolari finivano, gli affari di Stato ne prendevano il posto». Nei pomeriggio, composizione di versi, lettura e concerto di opere da lui stesso composto. La sera si cenava su un tavolo dipinto con scene priapee: ninfe sotto satiri, arieti sopra pecore: «I pasti non erano meno filosofici. Un sopravveniente che ci avesse ascoltato, vedendo quella pittura, avrebbe creduto di sentire i sette savi di Grecia al bordello ».
Ma il lieve spirito di sollazzo svanì molto presto. Voltaire cominciò a scrivere alle sue amiche che gli intrattenimenti emano deliziosi, «ma...», che le feste erano magnifiche, «ma...», che le principesse erano deliziose, «ma...». Il piacere di strofinarsi con il re, l'essere riverito e lodato, lo stare a Corte come un nobile, non compensavano quel, prima vago, poi sempre più forte senso di disagio.
Aveva sempre capito e saputo che Federico, « in fondo al cuore si burlava di lui». Sperimentarlo direttamente era però un'altra cosa. Il re era bizzoso e imprevedibile, protetto da quell'egoismo che riconduce inevitabilmente ogni cosa, anche la più banale, ai propri interessi. « Era nella sua natura far sempre giusto il contrario di quello che diceva o scriveva, non per dissimulazione, ma perché egli scriveva e parlava con un certo tipo di entusiasmo, e agiva poi con un altro». Sotto le poesie e le belle maniere francesi, c'era lo stesso dispotismo del padre, la stessa intolleranza venata di qualche follia. «Mosè», diceva, «guidava gli ebrei come voleva, e io governo i prussiani come mi pare». Inoltre pretendeva di essere il primo in tutto: il suo motto, ricorda lo scrittore, era: «Nessun rumore, se non sono io a farlo ».
Voltaire capì che l'avventura berlinese stava finendo e che era arrivato il momento di ripartire quando gli riferirono una battuta di Federico contro di lui: « Si spreme l'arancia, e la si butta via quando ne è uscito il succo». Il figlio del notaio decise allora di salvare almeno quelle che chiamava «le bucce»: «Avevo trecentomila lire da investire. Mi guardai bene dal'impiegarle negli Stati della mia Alcina. Le piazzai vantaggiosamente nelle terre che il duca di Wurtemberg possiede in Francia». Sapeva che «la povertà infiacchiva il coraggio» e che, «nato incudine» poteva non diventare martello, ma evitare di essere battuto, solo con l'aiuto dei quattrini.
Poi scappò a Parigi «con la promessa al re di ritornare, e con il fermo proposito di non vederlo più in vita mia». In effetti non si videro più, ma si scrissero molto. Lontani l'uno dall'altro, ripresero la loro corrispondenza filosofica al punto in cui l'avevano lasciata prima del viaggio in Prussia. Federico gli mandò un'epistola in versi in cui gli annunciava il suo prossimo suicidio, decisione maturata dopo le disfatte militari. Voltaire, pienamente convinto che lo scopo del re era solo quello di dimostrare di aver conservato tutta la sua presenza e libertà di spirito, in un momento in cui gli altri uomini non ne hanno più, gli rispose scongiurandolo di non farlo: come gli epiteti, anche i consigli — diceva — non costano nulla.


“la Repubblica” s.i.d., probabilmente 1982 

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