27.4.14

Casa Pintor (Luciana Castellina)

Per noi che con Luigi Pintor abbiamo lavorato, e anzi vissuto, fianco a fianco per tantissimi anni, questo libro che raccoglie le lettere della sua mamma Dedè Dore Pintor ha evidentemente un sapore speciale (Da casa Pintor. Una’eccezionale normalità borghese: lettere familiari, 1908-1968. A cura di Monica Pacini, Viella). Perché ci fa entrare nell’intimità della sua famiglia, nella sua storia, un lungo tragitto fra Cagliari e Roma, attraverso il Novecento – dagli inizi fino a poco dopo la nascita del «manifesto» – dandoci conto di affetti, gioie, dolori, riflessioni sul presente e sul passato, ipotesi sul futuro; restituendoci a tutto tondo la personalità dei suoi famosi zii che per via dei cenni frammentari ma affettuosi che ne tracciava Luigi nelle chiacchiere ci sono col tempo diventati quasi familiari: lo zio Fortunato, il più anziano dei Pintor, austero direttore della Biblioteca del Senato e collaboratore di Gentile; la sorella Cicita, con cui ha sempre vissuto e nella cui casa di Roma un giovane Giaime era venuto a vivere nel Trentacinque, abbandonando Cagliari per frequentare un liceo della capitale; lo zio Pietro, generale, morto nel Quaranta in uno strano incidente aereo (come Balbo) alla vigilia di esser nominato capo di stato maggiore al posto di Badoglio; lo zio Luigi, funzionario di alto rango e vice governatore nientemeno che della Cirenaica nei primi anni Venti.

Critica ma non dissidente
Dedè muore nel ’73, ma i nuovi media l’hanno negli ultimi anni disamorata all’abitudine della corrispondenza e infatti si chiede perplessa cosa ne sarà della parola scritta. (E ancor più me lo chiedo io ora, proprio riflettendo sul valore di questo libro: da quando c’è la teleselezione nessuno più scrive a nessuno e i rapporti si inaridiscono dentro frettolosi messaggi o si sperdono in parole lasciate al vento. Sarà difficile ricostruire la memoria dei nostri anni).
Ma le lettere di Dedè Pintor hanno un interesse che va ben oltre quello che naturalmente suscita in chi di Luigi è stato amico. Intanto sono piacevolissime, non – o non solo – come ci si potrebbe aspettare, quelle dolorose di una madre che ha avuto in sorte di sopravvivere per ben trent’anni al figlio dilaniato da una mina sulla linea Gustav, nel Molise. I suoi scritti sono una testimonianza ironica e spiritosa del suo tempo, un’acuta osservazione dell’Italia fascista e postfascista, vista con gli occhi della borghesia colta, né fascista né antifascista, distaccata sebbene imparentata con l’establishment, spesso critica ma non al punto di essere dissidente, come già altri, per esempio i Lombardo Radice, con cui pure si frequentavano molto. Normale, insomma:la politica, l’impegno, fino al sacrificio della vita, sono cose che arrivano solo con la seconda generazione, quando la storia afferra e la scelta si impone anche a chi, come a Giaime, aveva pensato solo alla letteratura, o a Luigi, che avrebbe voluto essere pianista e invece ha fatto il militante (ma il suo pianoforte, però, l’ha sempre rimpianto).
Una donna molto simpatica, Dedè – l’ho conosciuta già anziana e molto sorda, nella casa di via Nizza, dove, dopo il trasferimento a Roma, erano andati ad abitare i Pintor) – anche per il suo modo di vivere la propria condizione di donna. Ne scrive con molta autoironia, per il destino di madre e di sposa cui finisce per piegarsi, pur nella consapevolezza dello spreco del proprio talento che questa induce e cui si ribella scrivendo moltissimo, prima per riviste e manuali didattici, poi lettere e lettere a parenti ed amici, vere cronache del suo tempo. «Quando Giaime sarà diventato un grand’uomo – scrive al cognato nel 1920, il primogenito vecchio di neppure un anno – i biografi, per esaltarne meglio l’autodidattismo, diranno: nato da un modesto impiegato, dilettante d’arte da strapazzo, e da una madre dominata dall’innocente mania di maneggiar la penna a dritta e a rovescio».
Da casa Pintor ha comunque un interesse politico generale che va ben al di là della testimonianza di un tempo. Tanto più se posto in relazione con il libro di qualche anno fa scritto da Maria Cecilia Calabri: Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, non a caso assai spesso citato dalla curatrice Monica Pacini. Perché l’integrazione delle lettere di madre e figlio consente di fare ulteriore chiarezza su un tema che ha dato luogo recentemente a una dura controversia su come interpretare un passaggio fondamentale della storia italiana.
C’è chi ha infatti sostenuto che chi non era antifascista puro e duro prima e lo è diventato dopo, anzi, addirittura comunista, è stato un voltagabbana. Di Giaime, che pure è morto perché ha sentito il dovere di attraversare le linee per congiungersi alla Resistenza, pur essendo in salvo nell’Italia già liberata dalle truppe alleate, è stato persino detto che era un agente dell’intelligence britannica.

Una generazione di redenti
In ballo sono stati tirati in tanti, praticamente tutti gli intellettuali italiani della generazione maturata
negli anni ’30: Vittorini, Quasimodo, Gatto, Penna, Brancati, Pratolini, Bilenchi, Alicata, Ingrao, Galvano della Volpe, Zavattini, così come i pittori, Guttuso e Mafai fra gli altri. E questo perché avevano appartenuto al Guf, o partecipato ai Littoriali e perché scrivevano sulla rivista di fronda promossa da Bottai, «Primato», tutti «redenti» nel dopoguerra «grazie al passaggio sul fonte battesimale del Pci». Ma chi mai avrebbe potuto trasmettere antifascismo a quella generazione? Non poteva il vecchio antifascismo, liberale ed élitario, di prima della marcia su Roma, che non aveva sostanza capace di affascinare; non potevano essere gli antifascisti della sinistra perché in esilio o in prigione. Dice Laura Lombardo Radice Ingrao ricordando quei tempi in una testimonianza raccolta da sua figlia Chiara in Solo una vita: «I maestri di vita dovemmo cercarli altrove. Non nella generazione precedente, dell’anteguerra, nobili ma sconfitti, messi nell’angolo». Il «lungo viaggio» fuori dal fascismo, cominciò con l’essere fascisti e capire che non si doveva esserlo – testimonia Vittorini, e molti altri. Le vie furono più articolate e complesse. Ma proprio per questo il processo fu assai più ricco. Passa attraverso una stagione, quella degli anni Trenta, in cui l’Italia è isolata, la stragrande maggioranza della popolazione agnostica, persino affascinata dagli aspetti modernizzanti del regime, ancora non scossa dall’orrore dei bombardamenti e della guerra, quando, ma solo allora, comincia a formarsi una consapevolezza che sbocca per molti nell’impegno della Resistenza.
La singolarità della vicenda italiana sta nel fatto che, in gran parte grazie al coraggio di Palmiro Togliatti, fu proprio questa generazione ad esser promossa alla guida della sinistra, sacrificando, anche con amarezza, compagni eroici che uscivano dalle prigioni o tornavano dall’esilio, e che avevano però necessariamente perduto il contatto con la realtà italiana. Il comunismo italiano è stato migliore di quello di altri paesi anche per questo.
Le lettere di Dedè Pintor ci consegnano in questo senso una testimonianza preziosa, facendoci capire meglio le complessità, le sfumature, le contraddizioni di un passaggio storico per nulla netto e schematico.


“il manifesto”, 5 novembre 2011

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