2.4.14

Il caso Montaigne (Emanuele Severino)

Un uomo, un libro
Michel Eyquem, signore di Montaigne. Così sta scritto nei prontuari di filosofia e sulle enciclopedie tascabili. E nel castello di Montaigne, Montaigne nacque il 28 febbraio 1533 e morì il 13 settembre del 1592. Quasi sessant'anni, impiegati per la maggior parte proprio a scrivere i famosissimi «Essais».
Apparvero in volume nel 1580, e sulla prima edizione Montaigne annotò per 12 anni le sue correzioni, i ripensamenti, le riscritture. Così, su quella copia della prima edizione nel 1595 fu redatta l'edizione definitiva degli «Essais». Il volume annotato da Montaigne si trova oggi nella biblioteca comunale di Bordeaux.
Amato dai libertini o fautori del libero pensiero, Montaigne venne presto in odio ai cattolici. È a partire dal 1676 che le gerarchle ecclesiastiche misero all'Indice gli «Essais». Forse per le stesse ragioni gli illuministi amarono Montaigne: soprattutto Voltaire. Da qui probabilmente l'immagine comune di Montaigne scettico, dello stoicismo di Montaigne, dell'epicureismo di Montaigne. Insemina: Montaigne era un tipico antieroe, un negatore, uno che nella società prende sempre le parti dell'individuo. Un anti-ideologo, diremmo oggi.
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Ingenuo, ma che genio!
Gide diceva che «Montaigne è il primo di quei cattolici non cristiani che fanno professione di sottomissione a Roma e che tuttavia ignorano Cristo». Roma è la «Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana», dalle cui «sante risoluzioni e prescrizioni» Montaigne non intende deviare. Quanto a Cristo, non è del tutto vero quel che scrive Sergio Solmi, che il gentiluomo francese «nelle sue pagine mai nomini il Cristo»; ma è certo che il numero di volte che lo nomina, nel suo unico libro sterminato e straordinario, si conta sulle dita di una mano. L'editrice Adelphi pubblica ora una splendida edizione degli Essais (Saggi) a cura di Fausta Garavini, con appendici di grande interesse, come la riproduzione delle sentenze iscritte sulle travi della biblioteca di Montaigne, situata nella torre del suo castello, e una nota sulla lingua cinquecentesca dell'autore, del cui stile Voltaire scriveva che «non è puro, né corretto, né preciso, né nobile», ma «semplice e familiare, e sa esprimere ingenuamente grandi cose».
Il primo volume è aperto dal bel saggio di Sergio Solmi, La salute di Montaigne. Forse Pascal, quando con disappunto vedeva nel «divertimento» il rimedio a disposizione dell'uomo per allontanare da sé i pensieri tristi e circondarsi di un po' di serenità e di «salute», pensava, più che alla caccia alla volpe, ai Saggi di Montaigne, dove lo splendore del «divertimento» non fa dimenticare nulla della ricchezza terribile della vita, ma fa sgorgare la serenità dalla contemplazione della vita. Che poi era la vita stessa di Montaigne: «sono io stesso la materia del mio libro», «un argomento tanto frivolo e vano», come egli scrive nella prima pagina, ma trovando modo più avanti di osservare di non aver mai veduto al mondo un miracolo più straordinario e inintelligibile di se stesso.
«Che sciocca idea ha avuto Montaigne di dipingersi!», scrive Pascal, «e farlo in nome delle sue proprie massime! Poiché dire delle sciocchezze per caso e per debolezza è un male che non ha nulla di straordinario; ma dirle di proposito, questo è insopportabile, e dirne di talicome le sue!». (Tra l'altro Montaigne era poco decoroso agli occhi di Pascal. Si permetteva di raccontare aneddoti come questo: fu domandato a un filosofo, sorpreso a far l'amore, che cosa facesse, ed egli rispose con molta freddezza: «Pianto un figlio»).
«Che idea affascinante ha avuto Montaigne di dipingersi ingenuamente come ha fatto!», scrive invece Voltaire. «Poiché egli ha dipinto la natura umana. E quel povero tentativo di Nicole, di Ma-lebranche, di Pascal di screditare Montaigne!».
Sotto questa divergenza di opinioni c'è il problema del significato della parola Essai, che vuoi dire «prova», «saggio», «assaggio». Nel Sedicesimo secolo un gentiluomo francese di grande ingegno che ha avuto una cultura letteraria e giuridica, «assaggia» un gran numero di testi della classicità latina e greca, soprattutto moralisti e poeti. I grandi testi filosofici sono sfogliati solo in quelle parti che interessano il moralista. La conoscenza accurata di Seneca, del grandissimo Lucrezio, di Cicerone è più che sufficiente anche per un grande scrittore come Montaigne. Ma gli altri, i massimi pensatori, Montaigne non li capisce. E lo dice. Poi gli sembra di poter dire qualcosa di più: che non è che non li capisca, ma che per gli uomini rimane un mistero se i filosofi dicano il vero o il falso.

È forse di qui che ha avuto inizio quella sterminata coorte di letterati (ma anche di scienziati e perfino di filosofi) che, più o meno vicini al genio di Montaigne, si illudono di spacciare come «liquidazione» della grande tradizione filosofica quella che invece è soltanto la loro incapacità di capire la filosofia.

L'Europeo, 10 gennaio 1983

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