28.4.14

La nuova religione delle cellule antenate (Marco d’Eramo)

È sconfinata la boria mentale con cui ci pensiamo «moderni» (o «postmoderni»)! Ma in tutte le epoche ogni uomo si è sentito moderno, secondo la bella frase di Walter Benjamin (e immaginiamo
con che disdegno ci guarderanno i posteri). In questa nostra prospettiva dall’alto in basso, l’alterigia c’impedisce di riconoscere che tante nostre accanite discussioni replicano credenze antiche, addirittura primordiali, che pensavamo ormai sepolte come fossili sotto innumerevoli strati geologici di «civiltà».
Una di tali credenze riguarda quello che potremmo chiamare l’«animismo cellulare». Questa credenza ha un significato addirittura letterale quando trapela dal dibattito sulle cellule staminali, dove persino alla singola cellula è attribuita un’anima. Ma laici incalliti potrebbero pensare che si tratta di un residuo di superstizione, come il sangue di San Gennaro.

Cugini, nipoti, ex mariti
Più stupefacente è che lo stesso schema concettuale affiori in un best-seller internazionale scritto da una laureata in biologia, divulgatrice scientifica del “New York Times”, un saggio scelto come «miglior libro del 2010» da più di 60 media, subito tradotto in 25 lingue, tra cui l’italiano (è già uscito presso Adelphi).
Sull’oggetto del saggio «Alias» ha già pubblicato il 24 settembre uno splendido dossier di Alessandro Delfanti che in quel contesto ha usato il libro stesso solo come fonte, senza discuterne né l’impostazione né la filosofia. Sto parlando delle cellule cosiddette ‘He La’ e del libro La vita immortale di Henrietta Lacks di Rebecca Skloot.
Il libro racconta la storia delle cellule tumorali (di un tumore all’utero) di una signora chiamata Henrietta Lacks: nel 1951 queste cellule furono le prime a essere riprodotte ad libitum in una coltura di laboratorio (questo lignaggio cellulare è chiamato «He La» e sotto questo nome è noto ai ricercatori biologici e medici di tutto il mondo) e quindi a essere cedute – o vendute – e spedite ai laboratori di tutta la terra.
Il libro di Rebecca Skloot racconta con molti dettagli non solo le peripezie tecnico-commerciali e scientifiche di queste cellule e delle loro innumerevoli discendenti, ma anche la vita, la morte, gli amori, le manie, le depressioni, le repressioni, le gelosie, le superstizioni non solo di Henrietta Lacks, ma anche dei suoi parenti, nonno paterno bianco, mamma e papà, sorella, primo marito, cugino (e secondo marito), cinque figli, svariati cugini, nipoti, matrigna dei suoi figli rimasti orfani, marito divorziato di sua figlia, e molteplici amici e conoscenti. Il libro molto si commuove sul fatto che, benché il giro di affari intorno alle cellule He La sia assai consistente, i consanguinei di Henrietta non abbiano mai visto un centesimo. Ancor più il libro – che più politicamente corretto non si può – si commuove perché cellule tratte da una persona nera siano servite alla ricerca che tante vite bianche ha salvato.
Il tono è già dato dal titolo. Presupposto che queste cellule tumorali hanno il doppio dei cromosomi di qualunque cellula umana e quindi difficilmente possono essere catalogate come «umane», in che senso le He La costituiscono «Henrietta» in tutta la sua complessità, tanto che il loro riprodursi si traduce nella sua «vita immortale»? Supponiamo che le cellule di una radice dei peli della mia barba
siano riproducibili in vitro per millenni. Può l’immortalità della mia radice pilifera farmi parlare di una mia «vita immortale»? Quest’idea di «immortalità» ricorda la visione di quei popoli che mangiano gli organi dei defunti per appropriarsi del loro valore che si trasmetterebbe attraverso l’ingestione di un pezzetto della loro carne, un po’ di coratella. Se alla base del libro non ci fosse quest’assunzione di «animismo cellulare» – cioè l’idea che l’immortalità delle cellule He La è di fatto una forma di immortalità della signora Henrietta Lacks – raccontare le storie, e le fisime, della sua famiglia allargata sarebbe del tutto non pertinente. Sarebbe come raccontare le peripezie sentimentali del portiere di casa Einstein per spiegare alcune caratteristiche della teoria della relatività. A lunghezza di pagine, i parenti della povera Henrietta continuano a immaginare «Henrietta» sottoposta a esperimenti di laboratorio, ne soffrono, ci si arrovellano. Viene il dubbio che a instilllare nei suoi personaggi queste ansie sia l’autrice del libro.

Antirazzismo sospetto
Questa visione della cellula è conforme alla concezione maschilista del gene che la grande filosofa della scienza Evelyn Fox Keller accomuna all’homunculus di Lacan, al «piccolo uomo dentro l’uomo», al frammento infinitesimale che riproduce (e già contiene in potenza) il tutto. Certo che se questa concezione implicasse anche solo una briciola di verità, sarebbe una visione orripilante quella di miliardi di esemplari di te stesso/a sottoposti a tutti i tipi possibili di manipolazioni in migliaia di laboratori diversi (al momento in cui il libro è stato scritto, erano usciti più di 60.000 articoli scientifici basati su ricerche condotte su cellule He La). Ma appunto, che senso ha se non in un contesto animistico dove il culto degli antenati è sostituito dal culto delle cellule antenate (per di più tumorali)?
Questo animismo è interessante perché può essere coniugato insieme al più rigoroso scientismo, senza che l’uno arrechi disturbo all’altro. Infatti Rebecca Skloot si guarda bene dal formulare apertamente l’animismo cellulare, ma senza questa implicita assunzione il suo libro non avrebbe né capo né coda. Senza di essa, perché mai dovrebbe importarci qualcosa della razza di Henrietta o della razza dei malati che hanno tratto sollievo e vantaggio dalle ricerche sulle riproduzioni delle sue cellule tumorali? L’immortale vita di Henrietta Lacks trasuda di tanto nobile antirazzismo da farti sospettare che l’autrice un po’ razzista lo sia, se attribuisce alla razza una tale rilevanza ontologica. Francamente, cosa cambierebbe nella ricerca medica se invece cellule asportate da una cinese o da una caucasica fossero servite a guarire pazienti neri?
Vi è poi un secondo problema, oltre a quello dell’«animismo cellulare». Ed è il «capitalismo genetico». È vero che diciamo «il mio corpo», come diciamo che «il piede mi appartiene». Ma questo «appartenere» non significa «essere proprietà di», significa «essere parte di». In logica matematica questo legame è designato del simbolo di appartenenza di un elemento all’insieme che lo contiene e che è formato proprio dagli elementi che gli appartengono. Per esempio: ogni italiano appartiene al popolo italiano, nel senso che ne fa parte, e che a sua volta il popolo italiano è costituito dagli umani che appartengono a quest’insieme, che per questa ragione sono detti «italiani». Ma ciò non vuol dire che un italiano è proprietà del popolo italiano, che potrebbe quindi venderlo o comprarlo: certo, è vero che oggi alcuni poveracci sono spinti a vendere un proprio rene od occhio per poter sopravvivere, ma è altrettanto aberrante quanto i monarchi africani che «vendevano» i propri sudditi ai negrieri bianchi.

Avere e possedere
È vero che quando un ragazzo muore per esempio in moto, ci vuole il permesso dei famigliari per asportargli degli organi. Ma il permesso è necessario per ragioni di ordine etico e religioso, non perché i suddetti parenti possono mettersi a vendere gli organi o bandire un’asta sul fegato, sul cuore e sui reni! Se questo è vero a livello di organi, immaginiamo a quello cellulare. Perciò una cellula «apparteneva» a Henrietta Lacks nel senso che «faceva parte» di essa e che Henrietta era l’insieme costituito da tutte le sue cellule;ma questo non implica che fosse una proprietà commerciale – e quindi vendibile – della famiglia Lacks. Dire che i medici che hanno asportato e riprodotto in coltura un frammento di tessuto da una biopsia effettuata su una paziente afflitta da tumore terminale, hanno «defraudato» i figli e i nipoti, o hanno «sfruttato» Henrietta, anzi che i soliti bianchi hanno «sfruttato» la donna nera, è un ragionamento del tutto subalterno alla mercantilizzazione dell’universo e di ogni relazione umana e biologica. Discutere di questo problema – seppur per prospettare una soluzione diversa – significa sussumere tutte le possibili diverse relazioni di appartenenza all’unica forma di relazione proprietaria. Ma «appartenere», «essere parte di» possono avere, e per fortuna hanno, significati molto diversi non riducibili allo scambio di mercato e al rapporto proprietario.
Proprio come il verbo «avere» (e persino il verbo «possedere») non significa solo «essere proprietario»: per esempio, «avere grande intelligenza» o «possedere una sensibilità delicata» non significa essere proprietario di queste due doti, tantomeno di poterle smerciare. Solo una concezione paranoica della realtà, dell’universo come mercato, può farci intenerire (come succede a Rebecca Skloot) perché il terzo cugino o il bisnipote di Henrietta non percepiscono le royalties sulle repliche delle sue cellule tumorali (che per altro, dopo tanti passaggi, hanno subito tante di quelle mutazioni che sarebbe difficile ricollegarle con l’«originale»). Tanto è vero che perfino una legislazione dei brevetti e della proprietà integralista del mercato come quella vigente, riconosce che le cellule asportate non sono proprietà dell’essere umano da cui sono tratte. Anche qui: Rebecca Skloot si guarda bene dall’avallare il «capitalismo genetico», ma tutta la sua commozione sulla famiglia Lacks che non ha profittato del commercio di He La non ha senso alcuno se non proprio in una prospettiva «proprietaria» delle cellule.

Un coro di osanna
Mala faccenda più curiosa è non l’animismo cellulare, né il razzismo di rimbalzo all’antirazzismo, e neanche il capitalismo cellulare. No, è che nelle centinaia di recensioni che osannano il libro, nessuno abbia notato o messo in evidenza questi problemi. Anzi tutti si sgiuggiolano sui problemi «etici e razziali nella ricerca medica» che l’autrice esamina. Forse la recensione più disincantata è la breve segnalazione del «New Yorker»: «Questo resoconto straordinario ci mostra che professionisti del miracolo, credenti e truffatori popolano non solo le chiese ma anche gli ospedali, e che anche una scrittrice scientifica può trovarsi a recitare una parte centrale nella mitologia di qualcun altro».


“il manifesto”, 5 novembre 2011

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