13.4.14

Pietro Secchia, un protagonista della battaglia proletaria (Paolo Spriano)

In occasione della morte di Pietro Secchia l'articolo commemorativo per Rinascita fu scritto da Paolo Spriano, lo storico quasi ufficiale del Pci. In esso, pur con qualche reticenza, egli dà conto del coraggio e della coerenza del dirigente del movimento operaio e del capo della Resistenza, la cui biografia – negli anni Novanta – avrebbe subito la falsificazione e l'insulto. Miriam Mafai lo trasformò quasi in una macchietta (“il comunista che sognava la lotta armata”) per dare il suo contributo al furore revisionistico degli ex comunisti. 
Di Spriano mi è piaciuto il passaggio finale sulla fedeltà all'Urss e sulle botti stagionate nella cantina di Stalin. Lascia intendere quello che quasi tutti i vecchi comunisti sapevano e comunicavano: in Italia l'uomo di fiducia di Stalin non era l'idealista Secchia, ma il pragmatico (e cinico) Togliatti, tanto amato dalla Mafai. (S.L.L.)
La scomparsa di Pietro Secchia, del compagno, dell'amico, ci colpisce con particolare violenza. Quante volte, negli ultimi anni, solcati per lui dal dolore della perdita della sua compagna, l'abbiamo visto in quello studio che aveva ricavato in un abbaino della casa dove abitava, dalle parti del Buon Pastore a Roma, e, sempre, Secchia ci riceveva con il suo largo sorriso, la voce forte e la parlata aperta del biellese di buona razza, di combattenti (era nato a Occhieppo Superiore nel 1903), e si cominciava a discorrere della storia del partito che per Secchia era la storia, la vita, della sua vita. L'ultima volta ne discorremmo pubblicamente, poche settimane fa, presentando a Roma il suo più recente lavoro, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione: 1943-45. Si andò avanti fino all'una di notte in un dibattito appassionato, dinanzi a una sala piena di giovani. Secchia era stanchissimo, il male che l'aveva già portato più di un anno fa sull'orlo della tomba, l'aveva riagguantato. L'accompagnai fino a casa. Era molto contento della testimonianza di stima e di affetto che aveva sentito intorno a sé, del modo come la nuova generazione vive i problemi della nostra storia. E già nuovi progetti di studi e di pubblicazioni elencava e poneva in cantiere.
Può essere diventato un luogo comune della nostra retorica affermare che un vero rivoluzionario si distingue per la sua modestia; eppure, chi ha conosciuto Secchia sul lavoro sa che egli aveva in sé innato questo connotato di riconoscimento, sa che la sua modestia — cosa ancora più rilevante — era la stessa quando si trovava alla testa dell'organizzazione del partito, come vice-segretario generale, che dopo, sa che il costume suo, di cortesia, di franchezza, metteva l'interlocutore immediatamente a suo agio. Uomo di fermissime convinzioni, carattere tutt'altro che privo di spigoli, Secchia dava immediatamente la percezione di essere un dirigente operaio. Non era, in verità, di origine operaia nel senso che era stato studente, ma l'ambiente familiare e quello sociale in cui era cresciuto, di paesi di una zona proletaria di grandi tradizioni socialiste, era stato la prima scuola a cui da ragazzo era andato. E quella tradizione Secchia aveva valorizzato criticamente in un saggio sul movimento operaio del Biellese (Capitalismo e classe operaia nel centro laniero in Italia, 1960), molto interessante sia per il punto di vista rigorosamente classista, in cui si rispecchiava la sua esperienza di giovane socialista (iscritto al PSI nel 1919 a 16 anni, poi al PCI, con Livorno, nel 1921) che è legato al grande filone delle lotte memorabili dei lavoratori tessili, sia per il richiamo, direi più dialettico che polemico, a quella corrente riformista di pionieri del socialismo italiano che ebbe proprio a Biella una delle sue roccaforti, la corrente di Rigola, di Quaglino, di Rondani, di Luisetti. Quel giovane di 18 anni che fu al suo paese uno dei fondatori del nostro partito apparteneva a una minoranza di operai e di studenti che non solo avrebbe dato al PCI quadri nazionali del valore di Antonio Roasio, Guido Sola Tittetto, Iside e Luigi Viana, ma che avrebbe costituito nella guerra civile del primo dopoguerra, uno dei più agguerriti reparti della resistenza operaia e dopo, nel lavoro clandestino del partito (56 compagni biellesi furono condannati dal Tribunale speciale e, tra i più giovani, di una generazione successiva, basti fare un nome caro a Secchia, quello di Franco Moranino).
Conviene riflettere su questa prima impronta della milizia rivoluzionaria di Secchia perché essa illumina tutta la sua biografia politica. Egli, con i suoi coetanei di fede socialista, entra nel movimento sull'onda del grande, esaltante fatto della Rivoluzione d'Ottobre, vive non soltanto l'atmosfera del biennio rosso ma quella dei primi «tempi di ferro e di fuoco».
E' nella lotta armata ai fascisti che si compie la sua scelta, che egli diventa un «rivoluzionario di professione». Ma c'è qualcosa di più, qualcosa che notò proprio Palmiro Togliatti in uno dei rari articoli che questi abbia dedicato, negli anni più fondi della clandestinità, alla figura di un compagno che cadeva nelle mani del nemico. Era il 1931. Secchia era diventato un dirigente di primo piano di quella «falange d'acciaio» di cui parlò Granisci al congresso di Lione, uno dei giovani conquistati alla linea del nuovo gruppo dirigente. Nel 1924 aveva partecipato a Mosca al quinto congresso dell'Internazionale, il 1925 lo aveva passato in galera a Trieste. Nel 1927, come responsabile del centro interno della FGCI, Secchia aveva sviluppato una attività cospirativa straordinaria (definirla anche temeraria, per lo slancio e il coraggio dimostrati personalmente, è dire semplicemente la verità; del resto chi voglia sapere che cosa Secchia abbia fatto in quegli anni si veda appunto il suo prezioso libro, L'azione svolta dal partito comunista in Italia durante il fascismo, negli Annali Feltrinelli del 1969, e tenga presente che di tutta quell'azione Secchia fu uno dei registi e insieme degli esecutori più importanti). Egli stesso parlò, nel 1928, di un «atteggiamento strafottente ed eroico del PCI dinanzi alle leggi eccezionali». I giovani come Longo e Secchia avevano allora un atteggiamento polemico nei confronti della direzione, con posizioni e tesi che vennero tenacemente combattute, ma fu anche la loro solidarietà con Togliatti, nella battaglia contro Tasca e contro i «tre», negli anni immediatamente successivi, a garantire la solidità del gruppo dirigente stretto intorno a Togliatti. Nel 1928 Secchia rappresentava la FGCI nell'ufficio politico del partito, e fu cooptato nel CC. Andrà delegato a Mosca, per i giovani comunisti italiani, con Amadesi, al VI Congresso del Komintern.
Il suo impegno, nel 1929-30, ha un segno ben preciso, sia politico che organizzativo (e certo in lui il nesso tra l'uno e l'altro momento dell'azione del partito era particolarmente stretto, tipico del suo modo di dirigere): è il segno della battaglia data nel Centro del partito all'estero per riportare all'interno del paese, a costo di qualunque sacrificio, il lavoro di direzione. Dice in una sessione del CC: «Certo, il nuovo lavoro organizzativo ci costerà maggiori perdite di quante ne abbiamo avute finora: sarebbe ottimismo insensato prospettarci il contrario. Ma il sistema vecchio, quello che stiamo superando, costandoci meno, non ci permette di metterci, come partito, alla testa delle masse in movimento... Il sistema di lavoro di questi anni, con centro di gravità all'estero, ha creato un nuovo tipo di funzionario per il quale il lavoro che proponiamo è straordinario, pazzesco. Ma questo non lo era per il funzionario di anni fa, quando il lavoro si compiva in Italia, per l'interno, ed esclusivamente per esso. Noi dobbiamo tornare a questo tipo di funzionario, di rivoluzionario professionale, per cui le difficoltà non sono delle giustificazioni per fare poco, ma degli ostacoli da superare».
Ripensandoci ora, ci pare che ci sia tutto lo stile di Secchia in questo intervento: il suo brusco richiamo all'azione, all'impegno senza fronzoli e riserve opportunistiche, comunque mascherate; quello stile che, nel corso della Resistenza, quando egli sarà commissario generale delle Brigate d'assalto Garibaldi, ne farà l'alfiere più tenace della lotta all'attendismo. Nel 1929-30 era l'ora della «svolta», quella svolta che Secchia storiografo rivendicherà, nelle nostre polemiche, come una tappa fondamentale dello sviluppo del partito. E va rammentata l'importanza che ha avuto, proprio nella sua riflessione di storico, la rivendicazione della continuità dell'azione del quadro comunista. Si veda appunto, nel suo ultimo libro, Il PCI e la guerra di liberazione, lo straordinario elenco di dirigenti della Resistenza, di comandanti e combattenti parmigiani che venivano dal carcere, dal confino, dall'emigrazione: una documentazione molto importante a suffragio di una tesi che Secchia ha sempre difeso ed esaltato: il valore decisivo del fattore d'organizzazione nella Resistenza, la portata del contributo di una minoranza cosciente ed eroica di rivoluzionari di professione, e quindi anche il valore del «sacrificio» della svolta. Secchia, allora, nel 1930, ne era l'animatore. Alla fine di quell'anno rientrava in Italia alla testa del nuovo Centro interno. Il partito aveva convocato il suo IV Congresso, quello che si sarebbe tenuto a Colonia. Il giovane dirigente biellese organizzava le assemblee precongressuali. Ecco come egli stesso le avrebbe rievocate: «Certo, erano assemblee di tipo particolare. I congressi provinciali li organizzavamo spezzati, suddivisi in due o tre riunioni di una dozzina di partecipanti ciascuna. Il congresso di Torino lo tenemmo in sei riunioni, tre in provincia e tre in città. Partecipai a queste ultime, così come partecipai al congresso di Modena (tenuto in un fienile a Carpi) e a quello di La Spezia, tenuto in un cascinale e durato il sabato notte e l'intera domenica, di Milano, in una osteria fuori città. Al termine di ognuna di quelle riunioni (congressi) veniva stabilito il numero dei delegati al congresso nazionale senza farne i nomi, questi venivano designati poi da una commissione ristretta».
Ma al congresso nazionale Pietro Secchia non poté prendere parte. Fu arrestato, il 3 aprile 1931, a Torino e condannato poi dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato a diciotto anni di carcere. Uscirà dalla prigionia, sofferta tra carcere e confino, soltanto nell'agosto del 1943. Ed ecco, proprio nel giugno del 1931, a Parigi, sul giornale del partito (La vie prolétarienne), organo del PCF in lingua italiana, Togliatti pubblicò un articolo in omaggio al compagno arrestato. Scrisse che in Secchia si univano « la vecchia guardia e la generazione giovane », che questo era il carattere distintivo della sua personalità, giovane e anziano nello stesso tempo, trait d'union tra la generazione dei fondatori del partito e quella nuova leva che era accorsa sotto le bandiere comuniste negli anni della crisi Matteotti e delle leggi eccezionali. Credo di non commettere una indiscrezione ricordando questo episodio: Secchia ignorava che Togliatti avesse scritto quell'articolo, e quando glielo feci vedere, qualche anno fa, ne fu visibilmente commosso. Naturalmente, nel libro che ha dedicato a quegli anni non ne fa parola: quanti compagni avrebbero resistito alla tentazione di un simile attestato?
Nei suoi più recenti ricordi Secchia ha parlato ampiamente del periodo carcerario, del confino di Ponza e di Ventotene, del rientro nella lotta pochi giorni prima dell'armistizio dell'8 settembre. Avrebbe dovuto, come gli altri compagni, «godere» di una licenza a casa almeno di una settimana. Invece, dopo Porta San Paolo, è spedito al Nord, l'11 settembre, con le direttive della guerra partigiana, raccoglie i compagni dirigenti di Firenze, il giorno dopo è a Bologna. Dovrebbe ora puntare su Milano ma prima, il 14, fa una scappata a Borgosesia. Ha un appuntamento con Moscatelli e non vuole mancare. Racconterà poi, con una punta di civetteria, la sorpresa di Moscatelli. Arrivano anche Flecchia e quel ragazzo di diciassette anni, il più giovane dei Pajetta, Gaspare, che cadrà eroicamente. Secchia, rievocando quella notte, aggiunge semplicemente: «La Resistenza era cominciata». Quale sia stata, per quei venti mesi, la parte sua, di commissario generale delle Brigate d'assalto Garibaldi, il più vicino collaboratore del compagno Longo, è consegnato alla storia d'Italia. E quale il contributo politico, di elaborazione e di orientamento, si può leggere, numero per numero, in La nostra lotta, negli articoli, poi raccolti nel volume, I comunisti e l'insurrezione, ristampati recentemente dagli Editori Riuniti.
Negli ultimi anni Secchia ha dedicato le sue migliori energie a una riflessione sulla guerra di liberazione, con una coerenza che di opera in opera emerge più netta e che abbiamo già avuto più di un'occasione di mettere in rilievo. La polemica insita in quel ripensamento aveva due bersagli: una visione agiografica della lotta, come di un indistinto moto nazionale di popolo, e una recriminazione sull'«occasione rivoluzionaria» mancata. Ad esse Secchia contrapponeva, oltre a quei motivi già qui ripresi sulle virtù dell'organizzazione, lo stretto legame tra il carattere di classe e il carattere di guerra di unità nazionale che la Resistenza riuscì a stabilire. Scrupolosa fino alla minuzia è l'indicazione, in tutti i lavori di Secchia, dei limiti oggettivi e soggettivi della guerra di liberazione, dei suoi condizionamenti internazionali. E sui problemi aperti da quella guerra, sull'Italia del secondo dopoguerra, Secchia aveva in animo di tornare in un nuovo volume degli Annali Feltrinelli che avrebbe completato la triade, dopo quello sul 1926-32 e quello sul 1943-'45. Ma anche se questo lavoro resta incompiuto, quando andiamo a riguardare quello che c'è già di suo sull'insieme di un'esperienza storica siamo impressionati della mole del contributo. Si può partire dalla vivacissima cronaca partigiana della leggendaria formazione garibaldina della Val Sesia scritta, per i tipi di Einaudi, con Vincenzo Moscatelli (Il Monterosa è sceso a Milano) per passare ad alcuni libri grande respiro, forniti anche qui in collaborazione con un comandante partigiano, e insieme uno studioso, come Filippo Frassati, La Resistenza e gli alleati e una Storia della Resistenza che ebbe larga fortuna di critica e di pubblico; quel lavoro è culminato poi in una impresa ancora più ambiziosa a cui Secchia attendeva da anni (con Enzo Nizza), la Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza di cui sono già apparsi due volumi mentre egli aveva già messo a punto il terzo volume, che deve giungere fino alla lettera «M», una impresa a cui l'autore teneva molto e che converrà continuare.
Ma non si scordi neppure quel piccolo gioiello che è Aldo dice 26 X 1, sui caratteri dell'insurrezione popolare del 25 aprile 1945, che Secchia pubblicò da Feltrinelli dieci anni fa e di cui era particolarmente fiero perché in esso già si fornivano quelle risposte che la più vicina contestazione avrebbe poi risollecitato, con una carica polemica rinnovata. Né va taciuto il recente Le armi del fascismo: 1921-71 , anch'esso scritto con l'occhio ai lettori nuovi, di fronte al rinascere della violenza fascista e della provocazione reazionaria.
La tematica dell'antifascismo, la parte delle masse in questa battaglia di decenni e non di una sola epoca, il vigile discorso ai giovani sul valore di una carica garibaldina, sono state dunque le costanti di un impegno che Secchia ha continuato nei suoi studi con lo stesso spirito che aveva animato la sua figura di capo della Resistenza.
Eletto nella direzione del PCI nel 1945 col V Congresso e divenuto vice segretario, Secchia si gettò con passione nella costruzione di quel partito di massa che proprio nella Resistenza aveva posto le sue premesse più solide. E' nota la parte personale da lui avuta non soltanto in quell'opera collettiva ma nelle grandi battaglie date dal partito per la difesa della democrazia in Italia (basti citare il 14 luglio, dopo l'attentato al compagno Togliatti, o la campagna contro la legge truffa), sia come organizzatore sia come parlamentare (dalla Costituente alle successive legislature, alla Camera e poi al Senato di cui è stato anche vicepresidente, godendo di un prestigio e di una stima che gli erano tributati da tutti). Meno nota è la vicenda di un dissenso politico interno e dei suoi termini reali, su cui si è sbizzarrita spesso la stampa borghese. Credo che, al di là dei dati di cronaca — che andranno completati e rimeditati — lo stesso Secchia, in una sua nota polemica (in cui lo sfogo personale aveva la sua parte) allegata, nel gennaio del 1970, al libro su L'azione svolta dal PCI già citato, abbia fornito alcune valide indicazioni: una sottolineatura, che è anche generazionale, della tradizione comunista espressasi nella cornice del periodo cosiddetto del «socialismo in un solo paese», una riaffermazione puntigliosa dei legami con i paesi socialisti, una formazione, terzinternazionalista che Secchia rivendicava pienamente, al di là della questione stessa del giudizio sullo stalinismo su cui egli non ci ha dato se non qualche battuta carica di passione (come quella che la sua botte, a differenza di altre, non era mai stagionata nelle cantine di Stalin).
C'è stato il brusco allontanamento dalla segreteria, ne] 1954, c'è stato un problema ulteriore di non facili rapporti politici con il gruppo dirigente del partito, con lo stesso Togliatti (sulla cui opera la valutazione ufficiale di Secchia appariva sfumata ma soprattutto incerta). Il problema vero che si porrà studiando, con la necessaria serenità, la personalità politica di Pietro Secchia sarà però di natura ben diversa dall'ipotesi, oggi corrente in una semplificazione pubblicistica, di una contrapposizione permanente di linee, che a me pare non ci sia mai stata come tale né in una mitizzazione un po' romanzesca di quella « doppiezza » di cui si è spesso parlato nel partito a proposito del primo decennio del secondo dopoguerra. Il problema vero, che non riguarda, del resto, solo Secchia ma complessivamente una parte di dirigenti e militanti della sua generazione, resta quello del contrastato rapporto tra la tradizione di cui si diceva e la necessità di un rinnovamento generale di metodi, di un mutamento di prospettive. Il problema è quello di come si sia vissuta e accettata o meno da parte loro la ricerca della via italiana al socialismo e in generale l'analisi delle novità, delle crisi, delle lacerazioni del movimento comunista internazionale, dopo il 1953, dopo il 1956, dopo la rottura tra URSS e Cina, dopo la Praga del 68.
Secchia sentiva comunque fortemente, anche nell'amarezza di una posizione difficile e insidiata dalla speculazione dell'avversario, il senso della disciplina e della solidarietà politica, e non solo (e non tanto...) di quella formale. Il libretto che dedicò due anni fa ai giovani e al suo caro amico Vittorio Vidali (Le armi del fascismo) in cui discorreva sia dello squadrismo di cinquantanni fa sia dei pericoli attuali di neofascismo e di nuovo «blocco d'ordine», era in primo luogo un atto di costruttiva partecipazione, di contributo politico positivo (dato anche col buon senso che lo contraddistingueva nella sua opera quotidiana di dirigente) alla chiarificazione di una lotta comune essenziale per il movimento operaio e democratico. Secchia metteva giustamente l'accento sui problemi dello Stato, del suo apparato repressivo in cui si annidano gravi pericoli, sulla lotta contro i residui della legislazione fascista, sul compito di rinnovare gli istituti e gli organi chiamati a salvaguardare la Repubblica. E concludeva con parole che possiamo accogliere come il suo più appassionato messaggio ai compagni: «E' indispensabile che i lavoratori, i partiti, i sindacati, i movimenti democratici, i giovani, sentano e siano disposti a lottare per queste riforme politiche con lo stesso slancio con il quale lottano per le riforme della casa, della scuola, della sanità, dei trasporti. Altrimenti potremmo correre il rischio di vederci crollare addosso tutto perché, mentre pensavamo alla casa e ai trasporti, non ci eravamo accorti che altri stava minando dalle fondamenta la casa comune della Repubblica democratica. Si tratta di una azione che non può essere demandata soltanto al Parlamento, ma che deve essere sostenuta, portata avanti dall'attività, dalle lotte e dall'azione unitaria di larghe masse in tutto il paese. Si tratta di parte essenziale e decisiva della lotta contro il fascismo».


“Rinascita”, 13 luglio 1973

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