25.4.14

Rom. Il termometro della società (Angelo Mastrandrea)

Casilino 900. Foto di Luciano Sansone (da www.unacittà.it)
Nel 1936 la creazione di un campo per zingari nei pressi di Berlino inaugurò la politica dei lager nella Germania nazista. Oggi i pogrom slovacchi impongono di interrogarci sul futuro dell’Europa.
Casilino 900. Foto di Luciano Sansone (da www.unacittà.it)
C’è qualcosa in più della suggestione, se a leggere le storie di rom raccolte da Bianca Stancanelli in La vergogna e la fortuna (Marsilio) vengono alla memoria alcune scene di Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola. Quello che la burocrazia del Campidoglio aveva definito come «insediamento spontaneo», la gigantesca baraccopoli romana che non faceva onore alla peggiori periferie del mondo e che prendeva il nome dal numero civico e dal nome del quartiere, il Casilino 900 insomma, era sorto per iniziativa delle migliaia di meridionali che arrivavano a cercar fortuna nella capitale. Siciliani e calabresi, napoletani e pugliesi come il Nino Manfredi del film di Scola, rimpiazzati con il passare degli anni da bosniaci e macedoni, montenegrini e kosovari. A formare il più grande e terribile campo rom d’Europa, il ghetto per eccellenza, filmato, fotografato, studiato, vivisezionato da architetti e urbanisti, antropologi e fotografi, giornalisti e videomaker.
Ma sarebbe troppo poco, e perfino banale, affermare che gli zingari di oggi sono i meridionali di ieri, e che i primi vivono oggi sulla loro pelle il razzismo che un tempo spettava ai secondi. Si attaglia forse a entrambi quello che ha scritto il filosofo francese Étienne Balibar a proposito di quella «comunità senza Stato» costituita dai rom: la condizione di «capri espiatori», su cui si scaricano i risentimenti e i sospetti reciproci degli appartenenti alla comunità.
Oggi che il Casilino 900 è stato smantellato, la questione degli «zingari», «nomadi» o «gitani» che dir si voglia rimane tutta in piedi: in ventimila vivono ancora nei campi, organizzati o spontanei, di tutta Italia, e gli abitanti del Casilino sono stati sparpagliati nelle altre periferie cittadine, molti di loro deportati a Salone, in pieno agro romano, lontano da tutto e vicini solo al raccordo anulare.
Soprattutto, quello che non accenna a tramontare è il pregiudizio, che spesso e volentieri sconfina nel razzismo: i rom «rubano», rapiscono i bambini, non accettano di andare a vivere in una casa che non abbia quattro ruote per spostarsi, non si vogliono integrare.
Non che sia una prerogativa italiana, se si pensa alla campagna di espulsioni di massa escogitata lo scorso anno da Sarkozy in Francia solo per ragioni di consenso politico. Ma quantomeno oltralpe quello che in Italia è avvenuto nel silenzio e a volte con il consenso dei cittadini ha provocato una mobilitazione straordinaria in difesa dei diritti dei rom e una discussione pubblica di alto livello.
Per un Étienne Balibar che sottolineava «la tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso le altre nazioni», un altro filosofo come Jacques Rancière è andato in piazza a Montreuil a spiegare che il razzismo è sempre e solo di Stato.
Stancanelli oggi, in un lavoro che aggiunge una gran dovizia di informazioni alle storie di vita che ci racconta, fornisce un’altra felice metafora: quella del popolo-termometro, che «misura la febbre della società». E se è vero che nel 1936 la creazione di un campo per gli zingari nei pressi di Berlino inaugurò la politica dei lager nella Germania nazista, che dopo il crollo del Muro di Berlino i roghi dei villaggi rom in Romania delinearono il futuro dei paesi dell’est, oggi che in Ungheria l’estrema destra di Jobbik propone i campi di lavoro per i gitani e che in Slovacchia si susseguono i pogrom dei villaggi rom, viene da chiedersi quale sia lo stato del continente in cui viviamo e cosa ci aspetta nell’immediato futuro.
Il libro naturalmente non ha alcuna intenzione predittiva, piuttosto prova a farci conoscere da vicino, raccontandoci delle storie esemplari, la minoranza più discriminata del nostro paese, senza alcun intento «buonista» né voglia di tirare alcuna morale ma smontando pregiudizi e luoghi comuni. Lasciando intendere, alla fine dei conti, che de nobis fabula narratur, non di altro.


“il manifesto”, 8 novembre 2011

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