1.4.14

Roma non crede ai poeti (Eva Cantarella)

Pompei. La cosiddetta Venere in bikini
Properzio, Tibullo, una generazione più tardi Ovidio: i poeti romani dell'amore. A scuola, con maggior o minor attenzione, li abbiamo letti in quest'ottica. Ma proviamo a rileggerli oggi, dopo la pubblicazione del nuovo libro di Paul Veyne (La poesia, l'amore, l'occidente. L'elegia erotica romana, Il Mulino).
Che amore fu quello che gli elegiaci cantavano? O meglio: fu vero amore, o fu solo finzione letteraria? Veyne non ha dubbi: fu finzione. Prendiamo il caso di Tibullo e Delia: questo romanzo d'amore passato alla storia, egli scrive, in realtà non è mai esistito. E perché mai? Forse perché «il cavalier Albio Tibullo non amava le donne, prediligendo i fanciulli»? In particolare Marato, il bellissimo ragazzo con cui ebbe un'appassionata relazione? No, non per questo. Per ragioni che non avevano nulla a che vedere con le sue attitudini sessuali. Properzio, ad esempio, a differenza di Tibullo, preferiva le donne (anche se, certamente, non disprezzava i bei ragazzi, com'era normale per un romano, e come Veyne ha spiegato in un recente saggio sull'argomento). Ma neppure le sue elegie dedicate a Cinzia raccontano un vero amore. Troppe le divagazioni mitologiche, le lunghe inserzioni dotte e di maniera (il modello, si sa, era Callimaco). In quell'amore a parole disperato non c'è sincerità, non c'è passione, non c'è dolore.
E lo stesso discorso (se non può applicarsi del tutto a Catullo, il più autentico dei poeti dell'amore), vale per Ovidio, le cui opere e le cui vicende personali offrono a Veyne l'occasione per un capitolo di grande interesse storico. Chi erano, si chiede infatti Veyne, le donne celebrate dagli elegiaci? Erano vergini incorruttibili, rispettabili matrone? Neppure per sogno. Esse appartenevano al demi-monde formato dalle ex schiave, dalle donne sole, da quelle che, pur non essendo di mestiere prostitute, vivevano tuttavia della generosità dei loro numerosi amanti. Le altre, infatti, le donne oneste, a Roma erano praticamente inaccessibili. Se uscivano, erano accompagnate. Se venivano sorprese con un amante, il malcapitato subiva immediatamente atroci punizioni, e la legge (la celebre Lex Julia de adulterila coercendis di Augusto) considerava legittima la sua uccisione ad opera del marito o del padre della colpevole, che, in determinate circostanze poteva a sua volta essere uccisa.
In queste condizioni, come pensare che si potesse liberamente cantare l'amore per una donna per bene, che non fosse la propria moglie? Ma Cinzia non era moglie di Properzio, Delia non era moglie di Tibullo, Corinna non era moglie di Ovidio. La chiave di lettura dei nostri elegiaci sta in questo: i romani dividevano rigorosamente le donne in due categorie, e i poeti simulavano la passione cantando non quelle perbene, ma le altre. Come dimostra, appunto, la storia di Ovidio.
Ovidio, come è ben noto, fu esiliato sul Mar Nero. Perché mai subì questa punizione? Secondo Carcopino, perché pitagorico. Secondo Veyne, invece, probabilmente perché coinvolto in uno scandalo di corte. Ma quel che a noi interessa, più che le cause dell'esilio, sono le giustificazioni del poeta. Convinto, o fingendosi convinto di essere stato punito per aver cantato l'amore «leggero», Ovidio, nella speranza di essere richiamato in patria, si affanna a spiegare che l'amore da lui cantato era quello «leggero», ma non quello illegale. In altre parole, che i suoi versi non erano dedicati a insegnare l'amore alle donne oneste, ma alle cortigiane. Giustificazione plausibile? Qualche dubbio è lecito: forse che le cortigiane avevano bisogno di un maestro?
Ma torniamo alla tesi centrale del libro: l'elegia romana, dunque, non è poesia d'amore, nel senso in cui oggi intendiamo questo termine. È un genere letterario, che obbedisce a regole raffinate e imperative. È solo un gioco, di cui sia l'autore sia i lettori erano consapevoli. Gioco rivoluzionario, forse? Posta la morale puritana dell'epoca, l'ipotesi è possibile. Ma Veyne la scarta. In realtà, gli elegiaci non proponevano un modello alternativo d'amore, un modello che rifletteva un'ideologia diversa da quella dominante e imposta dall'autorità. L'amore che essi cantavano - infatti - era troppo lontano dalla mentalità romana per proporsi come un modus vivendi. Troppa passione, sia pur finta. Troppo abbandono, sia pur stilizzato. Troppa sofferenza, sia pur irreale.
Gli antichi, greci o romani che fossero, dice Veyne (in perfetta sintonia, su questo, con le ipotesi di Foucault) non conoscevano, nella vita, l'abbandono alla passione: e non lo conoscevano perché lo riprovavano. A differenza dei moderni, per i quali «l'intensità» è un valore, per gli antichi ogni eccesso era male. La loro etica era quella della misura, del controllo di sé, dell'«uso dei piaceri» ragionato e razionato. Un gioco, appunto: ecco perché, dice Veyne, la poesia antica oggi ci annoia. Perché è falsa, di maniera. E come se non bastasse, di cattivo gusto: quantomeno quella romana.
La disgrazia dei romani, egli scrive riprendendo un'idea di Ranuccio Bianchi Bandinelli, «è quella di mancare di gusto, di avere un'arte composita. I romani sono come quelle persone che non sanno scegliere i colori e indossano un bel vestito e una bella cravatta che insieme stonano». In ogni espressione artistica, dalla pittura alla scultura, alla poesia: «Bucoliche e Georgiche sono realizzazioni quasi perfette, l'Eneide no; non che sia diseguale, al contrario: è composta di brani quasi tutti mirabili; ma l'insieme non regge e, al cospetto dell'Iliade o di Dante, crolla». I romani, insomma, «mancano di gusto o di forza creatrice, che dir si voglia; non sanno tracciare l'opera intera con un solo gesto autoritario. Callimaco ha la statura di un Góngora, Virgilio nelle Bucoliche e Teocrito delle Talisie hanno la statura di Shelley; i nostri elegiaci hanno la statura dei poeti minori della Plèiade».
Come tutti quelli di Veyne, dunque, un altro libro provocatorio, un'interpretazione dei poeti dell'amore assai diversa da quella alla quale siamo stati abituati; il desiderio di rileggerli, questi poeti, nasce spontaneo, insieme a quello di confrontare il libro di Veyne con altri «classici» in materia, come la ben nota Integrazione difficile di Antonio La Penna (su Properzio, ndr). Di questo libro, certamente, si discuterà.

“l' Unità”, 16 dicembre 1985


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