Pompei. La cosiddetta Venere in bikini |
Properzio, Tibullo, una
generazione più tardi Ovidio: i poeti romani dell'amore. A scuola,
con maggior o minor attenzione, li abbiamo letti in quest'ottica. Ma
proviamo a rileggerli oggi, dopo la pubblicazione del nuovo libro di
Paul Veyne (La poesia, l'amore, l'occidente. L'elegia erotica
romana, Il Mulino).
Che amore fu quello che
gli elegiaci cantavano? O meglio: fu vero amore, o fu solo finzione
letteraria? Veyne non ha dubbi: fu finzione. Prendiamo il caso di
Tibullo e Delia: questo romanzo d'amore passato alla storia, egli
scrive, in realtà non è mai esistito. E perché mai? Forse perché
«il cavalier Albio Tibullo non amava le donne, prediligendo i
fanciulli»? In particolare Marato, il bellissimo ragazzo con cui
ebbe un'appassionata relazione? No, non per questo. Per ragioni che
non avevano nulla a che vedere con le sue attitudini sessuali.
Properzio, ad esempio, a differenza di Tibullo, preferiva le donne
(anche se, certamente, non disprezzava i bei ragazzi, com'era normale
per un romano, e come Veyne ha spiegato in un recente saggio
sull'argomento). Ma neppure le sue elegie dedicate a Cinzia
raccontano un vero amore. Troppe le divagazioni mitologiche, le
lunghe inserzioni dotte e di maniera (il modello, si sa, era
Callimaco). In quell'amore a parole disperato non c'è sincerità,
non c'è passione, non c'è dolore.
E lo stesso discorso (se
non può applicarsi del tutto a Catullo, il più autentico dei poeti
dell'amore), vale per Ovidio, le cui opere e le cui vicende
personali offrono a Veyne l'occasione per un capitolo di grande
interesse storico. Chi erano, si chiede infatti Veyne, le donne
celebrate dagli elegiaci? Erano vergini incorruttibili, rispettabili
matrone? Neppure per sogno. Esse appartenevano al demi-monde formato
dalle ex schiave, dalle donne sole, da quelle che, pur non essendo di
mestiere prostitute, vivevano tuttavia della generosità dei loro
numerosi amanti. Le altre, infatti, le donne oneste, a Roma erano
praticamente inaccessibili. Se uscivano, erano accompagnate. Se
venivano sorprese con un amante, il malcapitato subiva immediatamente
atroci punizioni, e la legge (la celebre Lex Julia de adulterila
coercendis di Augusto) considerava legittima la sua uccisione ad
opera del marito o del padre della colpevole, che, in determinate
circostanze poteva a sua volta essere uccisa.
In queste condizioni,
come pensare che si potesse liberamente cantare l'amore per una donna
per bene, che non fosse la propria moglie? Ma Cinzia non era moglie
di Properzio, Delia non era moglie di Tibullo, Corinna non era moglie
di Ovidio. La chiave di lettura dei nostri elegiaci sta in questo: i
romani dividevano rigorosamente le donne in due categorie, e i poeti
simulavano la passione cantando non quelle perbene, ma le altre. Come
dimostra, appunto, la storia di Ovidio.
Ovidio, come è ben noto,
fu esiliato sul Mar Nero. Perché mai subì questa punizione? Secondo
Carcopino, perché pitagorico. Secondo Veyne, invece, probabilmente
perché coinvolto in uno scandalo di corte. Ma quel che a noi
interessa, più che le cause dell'esilio, sono le giustificazioni del
poeta. Convinto, o fingendosi convinto di essere stato punito per
aver cantato l'amore «leggero», Ovidio, nella speranza di essere
richiamato in patria, si affanna a spiegare che l'amore da lui
cantato era quello «leggero», ma non quello illegale. In altre
parole, che i suoi versi non erano dedicati a insegnare l'amore alle
donne oneste, ma alle cortigiane. Giustificazione plausibile? Qualche
dubbio è lecito: forse che le cortigiane avevano bisogno di un
maestro?
Ma torniamo alla tesi
centrale del libro: l'elegia romana, dunque, non è poesia d'amore,
nel senso in cui oggi intendiamo questo termine. È un genere
letterario, che obbedisce a regole raffinate e imperative. È solo un
gioco, di cui sia l'autore sia i lettori erano consapevoli. Gioco
rivoluzionario, forse? Posta la morale puritana dell'epoca, l'ipotesi
è possibile. Ma Veyne la scarta. In realtà, gli elegiaci non
proponevano un modello alternativo d'amore, un modello che rifletteva
un'ideologia diversa da quella dominante e imposta dall'autorità.
L'amore che essi cantavano - infatti - era troppo lontano dalla
mentalità romana per proporsi come un modus vivendi. Troppa
passione, sia pur finta. Troppo abbandono, sia pur stilizzato. Troppa
sofferenza, sia pur irreale.
Gli antichi, greci o
romani che fossero, dice Veyne (in perfetta sintonia, su questo, con
le ipotesi di Foucault) non conoscevano, nella vita, l'abbandono alla
passione: e non lo conoscevano perché lo riprovavano. A differenza
dei moderni, per i quali «l'intensità» è un valore, per gli
antichi ogni eccesso era male. La loro etica era quella della misura,
del controllo di sé, dell'«uso dei piaceri» ragionato e razionato.
Un gioco, appunto: ecco perché, dice Veyne, la poesia antica oggi ci
annoia. Perché è falsa, di maniera. E come se non bastasse, di
cattivo gusto: quantomeno quella romana.
La disgrazia dei romani,
egli scrive riprendendo un'idea di Ranuccio Bianchi Bandinelli, «è
quella di mancare di gusto, di avere un'arte composita. I romani sono
come quelle persone che non sanno scegliere i colori e indossano un
bel vestito e una bella cravatta che insieme stonano». In ogni
espressione artistica, dalla pittura alla scultura, alla poesia:
«Bucoliche e Georgiche sono realizzazioni quasi
perfette, l'Eneide no; non che sia diseguale, al contrario: è
composta di brani quasi tutti mirabili; ma l'insieme non regge e, al
cospetto dell'Iliade o di Dante, crolla». I romani, insomma,
«mancano di gusto o di forza creatrice, che dir si voglia; non sanno
tracciare l'opera intera con un solo gesto autoritario. Callimaco ha
la statura di un Góngora, Virgilio nelle Bucoliche e Teocrito delle
Talisie hanno la statura di Shelley; i nostri elegiaci hanno la
statura dei poeti minori della Plèiade».
Come tutti quelli di
Veyne, dunque, un altro libro provocatorio, un'interpretazione dei
poeti dell'amore assai diversa da quella alla quale siamo stati
abituati; il desiderio di rileggerli, questi poeti, nasce spontaneo,
insieme a quello di confrontare il libro di Veyne con altri
«classici» in materia, come la ben nota Integrazione difficile
di Antonio La Penna (su Properzio, ndr). Di questo libro, certamente,
si discuterà.
“l' Unità”, 16
dicembre 1985
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