Tra le figure grottesche
e turpi che compongono il cast del film Satyricon due sole si
distaccano, nobili e austere: i coniugi suicidi. In quella coppia
Fellini condensò una serie di stoici repubblicani del I secolo: gli
oppositori, che si dettero la morte per «taedium vìtae» o in
ossequio all' ngiunzione degli imperatori (Nerone, Domiziano). Non si
sottoponeva un «Vip» ai laccio del carnefice; inoltre, il suicidio
evitava alla famiglia la confisca dei patrimonio.
I processi, quando vi
furono, e a dignità degli imputati, fornirono il modulo
all'imminente martirologia cristiana. Ma scrivere l'elogio delle
vittime del regime era pericoloso: chi celebrava il gesto supremo dei
conservatori rischiava la morte.
L'opposizione era
motivata da tradizionalismo politico e conservatorismo economico. I
senatori, spesso patrizi d'antica famiglia, erano contrari (talvolta
fino alla cospirazione) al nuovo corso impresso dai principato, che
favoriva l'esercito e la borghesia produttiva a danno del latifondo e
promuoveva il livellamento etnico e sociale. Il culto del sovrano, la
deificazione di modello orientale, serviva a cementare l'unità degli
spiriti, meta ambita da tutti gli imperatori, consapevoli della
varietà delle stirpi e delle religioni nell'immensa compagine
dell'impero.
Spesso le mogli, educate
alla stessa disciplina morale, vollero condividere la sorte del
marito: come la celebre sposa di Trasea, che si tagliò le vene per
prima e gli porse il pugnale dicendo: «Non fa male». Anche Paolina,
la consorte di Seneca, tentò di morire con lui, ma le fu impedito; e
portò poi sempre sul volto la traccia di quel gesto e «il pallor
della morte e la speranza».
Perenne compromesso
Tacito, nella sua
apologia di quei patrioti — dei quali condivideva la fede
repubblicana e la dottrina stoica, religione laica dell'élite
— è tuttavia reticente nei loro confronti fino ad essere ambiguo;
li definisce «rigidi, tristes». Si direbbe che il loro sacrificio
gli apparisse teatrale, e sterile quella loro «mansuetudine da
servi... quel sangue inutilmente versato... quel darsi supinamente la
morte...». Forse perché non ebbe il coraggio di agire come loro? o
perché, nel caso di Seneca, quella personalità complessa e
contraddittoria sfuggiva alle caratterizzazioni delle sue categorie
psicologiche? Seneca stesso, dal canto suo, ammirava Catone e Bruto,
i più alti esemplari della martirologia repubblicana, ma non gli
sfuggiva l'astrattezza utopistica dei loro ideali: era inutile,
scrisse, voler restaurare un regime di libertà, quando non vigevano
più i principi morali e i costumi nei quali quel regime era
attuabile.
Seneca cercò dunque di
adattarsi alla monarchia, riconoscendo che era necessaria e si mise
al servizio di essa. Claudio l'aveva esiliato in Corsica — dove
trascorse otto anni e scrisse la Consolatio ad Helviam,
indirizzata alla madre — per una sua relazione con una ventenne
della famiglia imperiale; richiamato da Agrippina, rientrò a Roma
pronto a collaborare. Fu precettore di Nerone e suo consigliere,
attuando il proposito, che era stato di Cicerone, essere l'eminenza
grigia, il pensatore a fianco d'un principe filosofo. Forse fu
connivente (o complice?) dei delitti di Nerone, certo dissentendo
dalla sua politica finanziaria, che favoriva le classi meno abbienti,
e dall'ideologia orientale teocratica. Esercitò funzioni da
reggente, ne ebbe l'autorità: tutta la sua esistenza fu un perenne
compromesso fra l'assoluto e il contingente, densa di quelle
esperienze che un filosofo è tenuto a disprezzare come beni
illusori: il piacere, la ricchezza, il potere.
Comunemente Seneca è
visto come lo stoico moralista, fonte inesauribile di sentenze
lapidarie da citare tra virgolette, intento a stendere opere di
profonda meditazione nel più severo isolamento. In realtà, fu uomo
di mondo, ricchissimo, letterato e politico oltre — o più — che
pensatore; governò l'impero per cinque anni, vigile ai problemi
finanziari e alla politica estera, sì che dopo la sua morte Nerone
raccolse i frutti del suo sottile lavorio diplomatico, dal quale
risultò rafforzata la supremazia di Roma sugli Stati d'oriente,
l'Armenia, la Siria, i Parti; ma scrisse parole di fuoco contro i
nefasti conquistatori di imperi, Alessandro e Cesare, e definì la
guerra un assassinio non punito dai codice.
Più che ad espansioni
imperialiste, Seneca mirava a un equilibrio duraturo nel quale Roma,
naturalmente, avrebbe occupato una posizione egemone; ma rinnegò la
patria dove ci si trova a nascere e anticipò Sant'Agostino nella sua
visione d'una città interiore, nella quale sono cittadini coloro che
praticano la virtù. Con spirito singolare per i suoi tempi, predicò
l'eguaglianza fra schiavi e padroni («schiavi? ai contrario, umili
amici...») e condannò gli spettacoli cruenti («l'uomo, cosa sacra
per l'uomo, oggi si uccide per divertimento...»). Alieno dalle
religioni iniziatiche d'oriente e incredulo degli Inferi, parla
tuttavia dell'anima come di cosa celeste, destinata a far ritorno tra
gli astri; forse sincero solo quando cede, con incerto tremore,
all'ipotesi temeraria dell'immortalità: «mi lascio andare a una
speranza così grande...». Per molti, le 124 Lettere a Lucilio
— che la Bur ripubblica con il testo latino a fronte, introduzione
di Luca Canali, a cura di Giuseppe Monti, — scritte negli anni del
ritiro di Seneca dalla vita politica, nel 63-64 d.C., hanno contato
quanto Le confessioni di Sant'Agostino per i cristiani. Vi si
riconoscono, con uno scavo più profondo, pensieri già espressi
nelle Opere morali o appartenenti ad altri filosofi, e ormai
diffusi nella precettistica popolare: la filosofia, a Roma, perdeva
il connotato speculativo, assumeva un tono didattico e le varie
scuole finivano per emanare norme di condotta analoghe.
Colloquio con se
stesso
In queste pagine, gli
interrogativi fondamentali sulla vita e sulla morte trovano risposte
che saranno poi riprese non solo dai seguaci della stessa scuola —
lo schiavo Epitteto, l'imperatore Marco Aurelio —, ma anche dai
mistici e, più tardi, da Piotino, da sant'Agostino, sì che ad
alcuni parvero non improbabili le lettere apocrife fra Seneca e san
Paolo (condannati negli stessi anni), tanto apparivano affini le due
contestazioni.
Queste lettere non
contengono l'auto-giustificazione d'uso nei memoriali dei politici a
riposo o emarginati, ma solo l'itinerario d'un'anima, un compiaciuto
colloquio con sé stesso. La libertas, esercizio giuridico di
diritti conquistati nei secoli (leggi scritte in luogo di responsi
oracolari, ricorso in appello contro i verdetti) fu parola d'ordine
dei repubblicani, leit-motif ossessivo degli oppositori. Con Seneca,
diventa possibilità estrema dì sottrarsi alla tirannide con il
suicidio; sotto qualsiasi dispotismo, egli scrive, ti è aperta la
via che conduce alla libertas; nel fondo del mare, nel laccio
appeso a un albero, nel ferro che ti recide le vene.
Ormai amaramente convinto
che il regime repubblicano fosse incompatibile con il dominio
mondiale, Seneca morì vittima di quel sistema che aveva contribuito
a rendere più forte, di quel principe al quale nel De clementia
aveva prospettato l'immagine dei monarca ideale; espulso dal
palcoscenico come attore d'un dramma ormai concluso, mentre
interpretava scene di imminente programmazione, che sarebbero state
rappresentate di lì a poco dai martiri cristiani. Privo del conforto
della fede, credeva solo nella ragione e guardava serenamente in
faccia la morte e Dio stesso, scrivendo: «Non obbedisco agli dèi,
consento».
“la Repubblica”, 20
ottobre 1985
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