10.5.14

Al cospetto di Berlinguer. Un incontro con Nino B. (S.L.L.)

Enrico Berlinguer durante un comizio a Cetraro
Un murale introvabile in rete
A Campobello di Licata, il mio paese natìo, tra i murales che il sindaco Calogero Gueli commissionò all'artista italo-argentino Silvio Benedetto ce n'è uno che raffigura Enrico Berlinguer. 
Io lo trovo bello, ci vedo una bella mano e un grande artigianato. Peccato che non si rintracci in rete, neppure nel sito del Comune, che pure presenta un'ampia galleria di immagini dalle opere di Benedetto, tra cui – tutta intera – la Divina Commedia che egli illustrò in cento blocchi collocati in una sorta di parco. 
Mi viene in mente una cattiveria politica: ho il sospetto che la censura risalga al tempo in cui Miriam Mafai scriveva Dimenticare Berlinguer, quando la smania parossistica di rimuovere la “diversità” comunista da parte del personale politico Ds coinvolse la figura del segretario che quella diversità aveva teorizzato e valorizzato, collegandola alle radici di classe del partito e alla superiorità politica ed etica del socialismo sul capitalismo. Ora che gli ex comunisti insieme agli altri “democratici”, non più di sinistra, sono diventati fin troppo uguali agli altri, tra loro c'è perfino qualcuno che tenta strumentalmente di riappropriarsi, almeno in parte, della figura di Berlinguer. Ma è operazione complicata.

Il bar sulla piazzetta
Il pietrone di marmo è collocato in una piazzetta con aiuole e alberelli su cui insiste un bar che tiene all'aperto, quando il clima lo consente, i suoi tavolini. L'altro ieri, seduto a uno di questi tavolini, ho trovato un vecchio amico e compagno, pensionato delle Ferrovie, Nino, a me particolarmente caro anche perché si trovò a prestare amorevole soccorso a mio padre, già toccato, senza che né lui né altri lo sapessero, dall'orrenda malattia che gli rovinò gli ultimi scampoli di vita. Era figlio di Domenico, un vecchio compagno di cui in gioventù apprezzavo le sagge parole e parabole. Mi rammento il 1966. In Comune c'era stato per qualche anno un centrosinistra aperto ai missini, che aveva inaugurato la pratica del “pizzo” (per gli assessori, in questo  caso), ignota in un paese in cui i comunisti fino ad allora oltre a governare il Comune avevano messo la mafia all'angolo. Il partito, per cacciare i mercanti dal tempio, accettò un'alleanza con una lista civica, il cui principale esponente era un vecchio medico, ricco proprietario fondiario, le cui opinioni – pur senza appartenenze - erano certamente di destra. Quando, nel corso delle trattative, costui dichiarò di non avere idee politiche Domenico, senza alcun complesso di inferiorità gli disse: “Lei è come una lettera senza indirizzo. Non arriverà mai a destinazione”.

Sporcaccioni
Nino ne era un degno figlio, pronto a rintuzzare l'avversario, a criticare, a redarguire se necessario. Mi ha abbracciato con gioia, lì, di fronte al monumento di Berlinguer, e mi ha detto di abitare in un paesino vicino a Modena ove, al 70 per cento, sono comunisti, non del Pd.
Non se se intendesse elettori di Sel, del Pdci o di Rifondazione e non avevo voglia di scendere nei particolari. Lui insisteva raccontandomi come i piddini stessero vendendo le sedi e perfino i capannoni e le attrezzature della festa dell'Unità, scordandosi della resistenza, del prete che negave battesimi e funerali, dei carabinieri che schedavano, della fatica che ci è voluta a costruire le case del popolo, ad acquistare spazi, capannoni e tutto il resto per la grande festa. Ha concluso in dialetto e con accento paesano: “Ssi quattru luordi si manciaru tutti cosi”. In lingua fa più o meno: “Quei quattro sporcaccioni si sono ingollato tutto”.  

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