Tradurre è la più
vitale delle attività umane. Il cammino della civiltà è una
incessante traduzione. Lo capì, ad esempio, un greco d’Asia, che
si chiamava Erodoto, il quale vide quanto dal mondo religioso egizio
fosse passato nel pantheon greco. I popoli che non traducono, in
propria lingua, la civiltà (letteraria, artistica, filosofica,
religiosa, scientifica) degli altri o diventano pericolosi o, se non
possono essere aggressivi, si condannano al sottosviluppo. Prima o
poi se ne renderà conto (al di là dell’attuale suo euforico
monolinguismo) il mondo anglosassone, nonostante la forza
economico-militare con cui impone agli altri il proprio idioma. Cioè
il proprio modello.
Ad Alessandria, nel III
secolo a.C. convergevano le culture del mondo conosciuto e schiere di
traduttori furono all’opera, come narra un bene informato dotto
bizantino, per tradurre da ogni idioma in greco. Non si
comprenderebbe la portata di quell’immenso fenomeno che fu
l’Ellenismo — in cui si collocano le grandi «letterature di
traduzione», da quella latina a quella araba — se non si tenesse
conto dell’autentico «dialogo del genere umano» che è, da
sempre, il tradurre. E non è un caso che «l’unità del genere
umano» e la visione della Terra come «patria comune di tutti gli
uomini» fossero i capisaldi delle principali filosofie ellenistiche,
quantunque tra loro contrapposte su altri piani.
Almeno dall’Umanesimo
in avanti, il tradurre fu pratica fondativa e formativa non più solo
nel contatto vivente tra «mondi» concomitanti e persino rivali,
bensì, e in pari misura, verso i «mondi» del passato: cioè verso
gli antichi e il formidabile loro lascito scritto, scampato all’usura
del tempo. L’Umanesimo divenne moderno interrogando, e perciò
traducendo, gli antichi greci e romani. Una interrogazione,
tutt’altro che tranquilla e passiva, temprata nell’esercizio del
comprendere a fondo ciò che l’attività di copia, sulla scala dei
millenni, aveva portato a salvazione. Fu quella una interrogazione
che, avendo generato e nutrito il Principe e i Discorsi
del Machiavelli, il Novum Organum di Bacone e il Sidereus
Nuncius di Galilei, può considerarsi a buon diritto l’architrave
della modernità. Che ci riguarda tuttora, direttamente.
Un tale imponente
fenomeno non si sarebbe dato senza lo sforzo di attrezzarsi a
comprendere — cioè a tradurre — quegli antichi nostri
interlocutori.
Ma dove nasceva la
difficoltà? Non solo nella profondità del pensiero di cui
appropriarsi, ma soprattutto nella lontananza. Ed è appunto tale
lontananza che fece e fa tuttora di quell’esercizio, di quello
sforzo di interrogazione, un cantiere sempre aperto, sempre
provvisorio, sempre passibile di prospettive prima non viste. La
lontananza infatti comporta che quel lavorio sempre provvisorio del
tradurre, consistente nel «colmare i silenzi del testo» (per dirla
con Ortega y Gasset), divenga — proprio in ragione della distanza
epocale — di gran lunga più arduo e soggettivo che nel tradurre da
un contemporaneo. Il quale condivide o combatte le nostre stesse
passioni e convinzioni, ha con noi necessariamente tanti presupposti
in comune, e perciò, pur in altro idioma, parla non di rado il
nostro linguaggio. «Non si può comprendere fino in fondo quella
stupenda realtà che è il linguaggio — scriveva Ortega — se non
si parte dalla consapevolezza che la lingua è fatta soprattutto di
silenzi. Un essere che non fosse capace di rinunciare a dire molte
cose sarebbe incapace di parlare. Ogni lingua è una equazione
diversa tra l’esprimersi e i silenzi». E prosegue: «Ogni popolo
tace alcune cose per poterne dire altre. Perché sarebbe impossibile
dire tutto. Da questo deriva l’enorme difficoltà della traduzione:
essa consiste nel dire in una lingua proprio ciò che l’altra tende
a tacere. Ma allo stesso tempo si intravede quell’aspetto del
tradurre che può costituire una magnifica impresa: la rivelazione
dei mutui segreti che popoli ed epoche si nascondono reciprocamente».
E perciò egli conclude il saggio, felicemente intitolato Miseria
e splendore della traduzione, con le parole di Goethe: «Ciò che
è umano è vissuto completamente soltanto da tutti gli uomini nel
loro insieme».
In questa straordinaria
sintomatologia e diagnosi dell’atto del tradurre è racchiusa la
spiegazione di ciò che vediamo così spesso sfuggire alla miopia
utilitaristica dei falsi riformatori, da sempre protesi a scacciare
«l’aoristo passivo» (vedi Andrea Ichino, «Corriere», 21
ottobre) dal Liceo: cioè dalla scuola più completa e perciò
davvero utile.
Non sarà sfuggito quel
cenno di Ortega a «popoli ed epoche». Lo sforzo di tradurre gli
antichi, infatti, è quello che comporta il massimo di capacità
intuitiva. Chi ha avuto, o per avventura tuttora conserva, una
qualche familiarità col patrimonio scritto greco-latino, sa quanto
il valore del singolo termine (spesso polisemico e passibile persino
di sfumature opposte di senso) si chiarisca solo se si è prodotta
l’intuizione di ciò che l’intera frase significhi. E per
converso la frase prenderà piena luce soprattutto dalla comprensione
delle parole principali che la compongono. È in questa circolarità
che si produce il salto verso la comprensione - intuizione. È in
questa circolarità che si comprende cos’è il conoscere. È grazie
a questa circolarità che si approda al sapere scientifico. In questo
senso un promettente linguista approdato alla militanza politica,
Antonio Gramsci, scrisse nei Quaderni del carcere che si
studia il latino non già per imparare a parlare latino ma per
imparare a studiare.
Chi ebbe la felice
opportunità di cimentarsi nella comprensione del lascito scritto di
quei remoti nostri interlocutori sa che un siffatto processo
interpretativo non è mai dato una volta per tutte. Ovviamente è
proprio nel cimento scolastico che si mette in moto quel processo.
Nel suo nascere e man mano affinarsi nella testa degli scolari esso
ha efficacia, forse incomparabile, per il continuo trapassare
dall’intuizione alla sintesi. A questo «serve» il tradurre gli
antichi a scuola.
Corriere.it, Il club
della lettura, 11 novembre 2013
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