5.5.14

Colonialismo italiano: la conquista della Libia (Giorgio Boatti)

Pavia. La lapide al capitano Verri, morto da aggressore  in Libia nel 1911
Libia: uno scacchiere complicato dove, come dimostra l'assassinio avvenuto lo scorso settembre dell'ambasciatore Usa Stevens e della sua scorta, anche veterani della diplomazia e dell'intelligence possono essere spiazzati brutalmente da scenari imprevisti. Del resto non è la prima volta che succedono cose simili. Nel 1911 anche l'Italia inciampa in qualcosa di analogo, quando sbarca sull'altra riva del Mediterraneo, per conquistare una Libia che ancora non si chiamava così.
Ora il nome del capitano Pietro Verri non dice niente ai più ma, nell'autunno del 1911, risuonò a lungo. La propaganda ne fece subito un eroe, tacitando ragionevoli interrogativi sul perché uno sperimentato veterano dello spionaggio come Verri fosse stato insensatamente esposto al fuoco nemico, fulminato da una fucilata mentre guidava una pattuglia di marinai contro soldati ottomani e guerriglieri libici.
Verri apparteneva all'Ufficio I del Regio Esercito. Vale a dire lo spionaggio militare. Aveva già operato brillantemente nell'intelligence: prima in Eritrea e poi in Cina, dopo la rivolta dei Boxer a Pechino. Con lo scoppiare della crisi libica era arrivato per tempo a Tripoli e, fingendo di essere un ispettore portuale, grazie alla conoscenza della lingua locale aveva allacciato contatti preziosi. Ma giunta la guerra erano scoppiate, come al solito, tutte le solite italiche rivalità. Tanto che, per fronteggiare la prime resistenze locali, la superspia Verri finisce in prima linea, accanto ai reparti della Regia Marina comandati dal capitano di vascello Umberto Cagni, famoso esploratore polare scagliato nel deserto libico.
Nel libro dello storico Nicola Labanca La guerra italiana per la Libia 1911-1931, da poco pubblicato dal Mulino, non ci si sofferma sul ruolo di Cagni, che in attesa del lento arrivo delle truppe di terra tiene Tripoli con i soli marinai, né sulla missione dello 007 italiano, nonostante che Verri venga immortalato da Gabriele d'Annunzio in una delle più famose Odi d'Oltremare («Chi balza con lo stuolo irto di ferri?/ È Pietro Verri...»). Pura propaganda bellica, ma D'Annunzio, visto che i fratelli Albertini, proprietari del Corriere della Sera, gli versano la vertiginosa somma di mille lire a ode, ne sforna dieci in poche settimane (mille lire sono, in quegli anni, lo stipendio annuo di un maestro).
Nel saggio di Labanca non c'è spazio per questi dettagli, ma emerge un documentato e articolato affresco delle fasi diverse che la guerra italiana in Libia attraversa, dalla stagione giolittiana sino alla «normalizzazione» imposta da Mussolini. Una «pacificazione», quella voluta dal fascismo, all'insegna dell'impiego dei mezzi più drastici - deportazioni, campi di concentramento, fucilazioni sommarie - utilizzati dal generale Graziani per domare la resistenza locale. Quel Graziani a cui qualcuno ha eretto recentemente un discutibile monumento ad Affile, suo «buen retiro» dopo i massacri.
Accanto a questi scorci, ampiamente trattati negli studi coloniali di Angelo Del Boca, è particolarmente interessante, nel libro di Labanca, la ricostruzione dettagliata delle contrapposte dialettiche che anche dentro questa guerra, come in tutte le guerre, accendono il «fuoco amico». In questo «campo di battaglia» fra italiani si fronteggiano, all'insaputa dei cittadini e nel silenzio della stampa, leader politici e generali, agenzie informative e comandi vari: tutti apparentemente al servizio dello stesso Paese.
In quel 1911 Giolitti non si fida del suo ministro degli Esteri, Antonino di San Giuliano. Entrambi poi cercano di emarginare il generale Spingardi, che pure è il ministro della Guerra. Lo stato maggiore a sua volta, nel timore di ripetere lo scacco di Adua, impone una spedizione da 100 mila soldati ma, nella fretta, lascia sola la Marina nei primi passi della missione.
Le cose non cambiano neppure in seguito, quando - come ricostruisce con ampiezza Labanca -, occupato stabilmente il territorio, è sempre guerra di tutti contro tutti: soprattutto nel decidere quale politica seguire nel fronteggiare la crescente ribellione e la guerriglia. Sino ai siluramenti con cui Mussolini interviene a ripetizione nel ginepraio di una Libia dove la resistenza agli italiani si fa sempre più consistente.
La mischia per controllare quei territori affronta bufere micidiali, che si alzano non solo nel deserto, contro il nemico, ma all'interno degli apparati e delle catene di comando. Serve tempo - anni, a volte decenni - per rintracciare, grazie al lavoro dello storico, le piste dove cammina la verità.


La Stampa, 29 dicembre 2012

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