31.5.14

Grande Guerra. Due a tre nella terra di nessuno (Gabriele Venditti, Christiano Presutti)

L'articolo che segue parla di un episodio accaduto durante la Grande Guerra e precisamente durante la cosiddetta “Tregua del Natale 1914” sul fronte franco-tedesco in una zona in cui si affrontavano dalle trincee combattenti inglesi (alleati della Francia) e combattenti tedeschi. Tregue in occasioni di feste ci sono state abbastanza spesso nel corso delle guerre, in genere frutto di contatti riservati tra Stati maggiori o capi militari, ma quella del 1914 fu promossa dal basso e comprese momenti di incontro e fraternizzazione con i “nemici”. Situazioni analoghe di ebbero anche su altri fronti di guerra nei due Natali successivi, 1915 e 1916, sebbene più limitati a causa delle minacce e delle rappresaglie degli Stati Maggiori. Ho tagliato le puntuali note bibliografiche, che chi vuole potrà recuperare nell'ottimo sito di provenienza “Futbologia – Il pallone al cubo” - http://blog.futbologia.org/. Credo che – nel momento in cui risorgono quei nazionalismi aggressivi che misero fine a lungo periodo di pace e di progresso civile in tutta Europa - bisognerà utilizzare il centenario della Grande Guerra, per una grande campagna contro il risorgente militarismo e per la solidarietà tra i popoli. (S.L.L.)
Tommies della London Rifle Brigade posano con Saxons del 104° e 106° Reggimento
La “Tregua di Natale”, quella piccola pace nella Grande Guerra come efficacemente viene chiamata nel titolo del saggio di Michael Jürgs (Il Mulino, 2005), si aprì spontaneamente e senza intervento di diplomazie alla vigilia del primo natale di guerra. Il conflitto, iniziato ufficialmente solo cinque mesi prima, si era già impantanato tra le lunghe linee di trincea che correvano parallele come binari di treno nel fango dei campi di Fiandra.
Accadde nella notte del 24 dicembre 1914. Un po’ ovunque lungo la linea del fronte uomini morti di stanchezza e stanchi di morte uscirono dalle trincee sollevando le mani e incamminandosi nella sottile striscia di terra confusa dalle detonazioni che li separava. Infagottati nei lunghi trench, con le sciarpe di lana e le pelli di montone sopra la livrea del reggimento, soldati di opposti schieramenti si incontravano faccia a faccia per la prima volta nella terra di nessuno. Si scoprirono pari dietro le divise, sopperendo a lingue diverse con segni e sguardi, facendo le cose che fanno gli uomini quando si trovano a condividere uno stesso destino nero, in trincea come in carcere o in ospedale. Si scambiarono auguri, champagne con cioccolata, muffin con Pfefferkuchen e altre delicatessen estratte dai pacchi dono, guardarono assieme fotografie di figli e mogli tirate fuori come reliquie dai portafogli. La piccola pace si estese al giorno di Natale e da qualche parte anche ai giorni successivi, gli uomini si lasciarono fotografare assieme, arrivarono a scambiarsi indirizzi e promesse di reciproca ospitalità a guerra finita. Del resto, chi appena qualche mese prima viveva del suo lavoro al porto di Liverpool aveva in comune più cose con il suo omologo di Kiel – portasse anche l’elmo chiodato di un reggimento sassone – che con il suo stesso superiore graduato, scarpe pulite e frequentazioni d’accademia, che in trincea arrivava solo per le ispezioni e viveva la guerra nelle ville di campagna requisite. La guerra di trincea era per proletari inglesi, francesi, tedeschi, stessa carne da cannone. Si direbbe marxianamente: è la classe baby, e non è acqua.
Se lo scoppio della pace – si legge nei diari – si deve ai tedeschi, i palloni uscirono fuori dalle trincee inglesi. La presenza di footballers tra gli uomini della British Expeditionary Force era cosa abbastanza consueta, in anni in cui il calcio è già lo sport più popolare. Palloni in cuoio e scarpette chiodate si trovavano, insolitamente, nello zaino di più di un soldato, anche se i professionisti della First Division nell’inverno del ’14 continuavano a solcare i campi domestici e non quelli trincerati, perché nel primo anno di guerra il campionato inglese non era stato sospeso. Nelle retrovie giocare a calcio era attività praticata tanto dalla truppa quanto dal principe di Galles e durante la frettolosa piccola pace sarebbe stato naturale calciare un pallone, così come si bevve e si fumò. In effetti, specie da parte anglosassone, la “Tregua di Natale”, o Christmas truce, evoca nel ricordo proprio l’episodio del Football match, la partita di calcio disputata dai soldati nella No Man’s Land tra le due trincee.
Il primo a rendere noto l’episodio fu un anonimo maggiore medico intruppato nella London Rifle Brigade in una lettera al Times pubblicata il 1° di gennaio 1915, nella quale si parlava di una partita di calcio giocata “tra noi e loro” nella terra di nessuno. Ma racconti di partite giocate un po’ ovunque durante quel Natale ce ne sono diversi. La narrazione più precisa è di parte tedesca, appartiene al tenente Johannes Niemann, del 133° Reggimento reale sassone, e ricorda la partita giocata contro gli Scottish Seaforth Highlanders disputata nella linea del fronte tra Frelinghien e Houplines. Cominciò quando uno scozzese apparve con un pallone sotto il braccio, come se fosse la cosa più normale da farsi: così scozzesi e tedeschi formarono le squadre, per marcare la porta furono usati gli elmetti e la partita ebbe inizio. «Era difficile giocare sul terreno ghiacciato, ma continuammo rispettando quanto più possibile le regole del gioco, tranne che per il fatto di giocare solo un’ora e senza nessuno che arbitrasse». I soldati si rincorrevano e giocavano con un entusiasmo infantile. Quando folate di vento alzavano il kilt agli scozzesi, mostrando le natiche illividite dal freddo, dal pubblico di parte tedesca partivano fischi di approvazione all’indirizzo di quelle strane fräulein. Alla fine i tedeschi vinsero per 3-2, non ci è dato il nome dei marcatori.
Con lo stesso risultato di 3-2 per i Sassoni si chiuse il match giocato contro i Lancashire Fusiliers, ma stavolta la narrazione è di parte inglese e, più epica, parla di un barattolo di conserva vuoto usato al posto del pallone. In più, ci fosse stato un arbitro e un fischietto, la terza rete dei tedeschi non sarebbe stata concessa per un evidente fuorigioco. Secondo altre fonti, era stato il reggimento Bedfordshire a perdere contro i sassoni, sempre con il ricorrente risultato di 3-2, ma qui solo perché si era dovuta interrompere la partita quando il pallone di cuoio era volato in cima a un reticolato bucandosi, e ricordando così a tutti che le buche, i cavalli di frisia e il filo spinato rendono i terreni poco adatti al gioco del calcio. Ancora di una partita finita 3 a 2 per i tedeschi parla una lettera pubblicata da un anonimo sulla Westmorland Gazette il 9 gennaio 1915: «Ad uno dei nostri hanno dato una bottiglia di vino da bere alla salute del Re. Il reggimento ha poi giocato una partita di calcio contro i tedeschi, che li hanno battuti per 3 a 2. Questa gente ha detto che non avrebbe sparato ai nostri, ma hanno avvisato di stare attenti a quelli alla loro sinistra».
Stando a Michael Jürgs la partita, anzi le partite, sarebbero mitografia alimentata da uno stesso racconto, forse anch’esso inventato: «Che in diversi settori si siano svolte partite vere e proprie, con arbitri a fischiare gli intervalli tra i due tempi, e alla fine una vittoria dei sassoni sugli scozzesi per tre a due, è una leggenda».
Tuttavia viene naturale pensare a una partita di calcio nel clima irreale di una tregua nata dal basso, principiata da qualcuno che canta Stille Nacht da una parte e seguito a ruota da Silent Night dall’altra, finita poi in una sorta di euforica scampagnata tra sigari e alcool. Almeno come progetto: «Molti tedeschi erano di Londra, e speravano che la guerra finisse presto. Uno di loro ha persino suggerito di farla fuori con una partita di calcio, o con un combattimento a palle di fango, in modo tale che nessuno fosse ferito. Ti sarebbe piaciuto essere qui quel giorno. Che cose divertenti capitano in questa guerra!».
Ernie Williams, fuciliere del Cheshire Regiment racconta di una partita presso Wulvergem, in Belgio: «Costruimmo delle specie di porte, due ragazzi vi si misero, e cominciarono tutti a correre dietro il pallone. Erano almeno un paio di centinaia di uomini». Prima che la ricreazione finisse, ci fu spazio per lo scambio di memorabilia e le foto ricordo: «Sul campo congelato era una bella impresa. Uno di noi aveva la macchina fotografica. Allora i calciatori delle due squadre si ordinarono rapidamente in gruppo, sempre a file allegramente multicolori, con il pallone al centro».
Traiamo una conclusione: anche se non ci fu quest’unica, emblematica partita mondiale finita dovunque 3 a 2, ritualmente giocata tra squadre in divisa, Fritz vs. Tommies, quindici anni prima della prima Coppa Rimet e cinquant’anni almeno prima della prima UEFA, le testimonianze concordano sul fatto che gli uomini della tregua inseguirono comunque un pallone di cuoio o una palla di stracci o una scatola di biscotti. Probabile è che, rimossi i cadaveri, la terra tra le due trincee si trovò ad essere campo libero, e si giocò come si fa ancora sui prati, nei cortili, nei posti scomodi che solo la fantasia identifica come campo di gioco. Probabile è che si ebbero tante spontanee e caotiche partite, spesso a formazioni miste, tante quante gli episodi conosciuti di fraternizzazione. A centinaia, come in un quadro di Bruegel, inseguirono la palla, segnarono fra pali fatti con bastoni o pile di cappotti o elmetti chiodati e sotto traverse solo immaginate, scivolarono in tackle inchiodandosi senza cattiveria gli anfibi nei polpacci, felici di non avere arbitri né graduati tra gli spettatori. Che strano fairplay s’impose tra chi era solito spararsi addosso: quando qualcuno cadeva nel fango, «dato che in uniforme e stivali è davvero difficile giocare in modo elegante», sportivamente l’avversario, qui tecnicamente un nemico, lo aiutava a tirarsi in piedi.
Kurt Zemisch, del 134° Reggimento reale sassone, scrive nel suo diario: «Alla fine gli Inglesi tirarono fuori un pallone dalle loro trincee e subito ne seguì una animata partita. Una meraviglia, qualcosa che ancora mi appare difficile da credere. L’ufficiale inglese aveva la stessa sensazione di stupore (…) Dissi che non avremmo sparato neanche per Santo Stefano. Loro furono d’accordo. Quella sera l’ufficiale inglese ci chiese se fossimo d’accordo ad organizzare una vera partita di calcio, da tenersi tra le due trincee, il giorno seguente».
Pare che durante i primi giorni il ritorno a uno stato di belligeranza fosse difficoltoso, che il comportamento dei soldati risultasse inadeguato, si racconta di soldati ricalcitranti e di colpi sparati verso l’alto. La vera partita a cui fa riferimento Zemisch non si ebbe, causa il primo di quegli avvicendamenti che raffreddarono la pace e riportarono la guerra al consueto massacro, un po’ per la naturale rotazione delle truppe, un po’ perché i comandi decisero di spostare altrove le milizie che avevano fraternizzato.

Naturalmente vi erano anche soldati che non avevano partecipato alla tregua, quelli che avevano vissuto i momenti di familiarizzazione come atti di tradimento. Il Gen. Sir Horace Smith-Dorrien, comandante del British II Corps, venuto a conoscenza dei fatti aveva dichiarato irritato: «Ho emesso ordini severi che in nessun caso sono ammesse relazioni con le truppe avversarie. Per concludere in fretta questa guerra, dobbiamo mantenere lo spirito combattivo e fare tutto il possibile per scoraggiare rapporti amichevoli». Queste invece le lapidarie parole di uno dei soldati contrari di parte tedesca: «Queste cose non dovrebbero accadere in tempo di guerra. A voi tedeschi non è rimasto alcun senso dell’onore?» (Cap. Adolf Hitler, 16º Reggimento di Fanteria Bavarese).

Dal sito "Futbologia. Il Pallone al cubo", 25 dicembre 1913

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