24.5.14

La Resistenza: ricordare per dimenticare? (Alessandro Portelli)

1944. Partigiani umbri e slavi della "Brigata Gramsci" operante in Valnerina
Ho ritrovato giorni fa una vecchia registrazione nell’archivio sonoro del Circolo Gianni Bosio. Era una sequenza di parodie di canzonette che risaliva ai palcoscenici dell’avanspettacolo nell’immediato dopoguerra, e infatti fu un artista di avanspettacolo a cantarcela nel quartiere di San Lorenzo, sull’aria de La signora di trent’anni fa, ovvero, “Nel 1919). Cominciava così: “Nel 1922 Ce fu un governo, ‘n m’aricordo come / Ce fu ‘na marcia, ‘n m'aricordo ‘n dove / Che fu chiamata – ‘n m’aricordo più. / Poi per vent’anni fummo sistemati / Da tante guère – n’m’aricordo più / Però alla fine fummo liberati / Però da chi – nun me lo ricordo più”.
Ascoltata oggi, è una geniale provocazione sulla memoria. Da un lato può essere un invito a dimenticare – “scurdammoce ‘o passato” , si cantava. Dall’altra, e così mi piace di pensarla adesso, può essere una feroce ironia verso chi dimentica il passato e quindi si prepara a ripeterlo (la parodia continuava dicendo che ricorda solo che “era un governo nero, e invece adesso è nero” – nel senso di clericale: “s’hanno allungata la camicia nera”, cantava un poeta proletario di Genzano, negli stessi anni). Uno striscione esposto da un gruppo neofascista davanti a una scuola di Aprilia il giorno della memoria diceva: “Ricordati di non ricordare”; ed è proprio questa ingiunzione all’oblìo, questo ostinato ripetere “non ricordo più”, a ribadire che certe memoria non si possono né evocare né cancellare a comando. O, forse, la canzone può voler dire qualcosa di ancora più complesso: sulla Resistenza, fin da allora, convivono memoria e oblio; la Resistenza è al tempo stesso l’evento più ricordato e più dimenticato della nostra storia recente. Negli anni ’50, viene cancellata dalla memoria ufficiale (chi, come me, ha fatto tutte le scuole in quel tempo, non l’ha mai sentita nominare, se non per esorcizzarla) e contemporaneamente bandiera della sinistra e del movimento operaio. Poi, negli anni ’70, trasformata in rito istituzionale, più commemorata che ricordata; e subito, come reazione, lo slogan militante “la Resistenza è rossa e non democristiana” che, nel rivendicare la funzione di rottura e di sguardo al futuro della Resistenza (l’aspetto “guerra di classe” di cui parla Pavone), dimenticava tante altre realtà e altre dimensioni (la “guerra patriottica”, la “guerra antifascista”). La tensione di memoria e oblio sulla Resistenza culmina in quel memorabile 25 aprile del 1994. Per la prima volta in Europa, era al potere un partito che si richiamava esplicitamente al fascismo (l’allora Movimento Sociale Italiano), in coalizione con altre forze che si dichiaravano esplicitamente estranee al patto democratico fondato sulla Resistenza, come Forza Italia e la Lega Nord. “Si potrebbe…” intitolava allora il manifesto – si potrebbe cogliere il 25 aprile per una forte affermazione di un non dimenticato antifascismo; e in quel giorno di pioggia furono centinaia di migliaia a sfilare per le strade di Milano.
Nei vent’anni che sono passati da allora, la Resistenza ha ritrovato la sua funzione di conflitto, di ribellione: la Resistenza era ancora attuale, presente e provocatoria proprio perché il nuovo potere continuava ostinatamente a volerla dimenticare. Tanto è vero che persino Silvio Berlusconi ha dovuto finire per travestirsi da partigiano fingendo di commemorare, tra le rovine di Onna, una Resistenza depurata di tutto quello che la rende viva. In fondo è un paradosso, ma è un dato della nostra storia e del nostro presente: il progetto della Resistenza è quello di unire l’Italia, ma ridiventa vivo ogni volta che c’è qualcuno a cui questo progetto di unità democratica dà fastidio. E dà fastidio perché è un’unità partecipata, non delegata – un aspetto della Resistenza che è dimenticato troppo spesso anche da soggetti che si dicono antifascisti. In questi anni, parlando coi partigiani e le partigiane, ascoltando le loro storie, ho che capito per tutte e tutti la Resistenza, armata o non armata, è stata una scelta personale confermata ogni giorno; nessuno gli ordinava di entrare nella Resistenza, nessuno gli ordinava di restarci; di ogni scelta, giusta o non giusta, ciascun resistente si è assunto personalmente la responsabilità, nessuno ha mai detto “obbedivo agli ordini”. La nuova Italia democratica nasce dopo l’8 settembre, quando - senza che nessuno glielo abbia ordinato - tanti cittadini, civili e militari, scelgono di opporsi ai carri armati e ai paracadutisti tedeschi, a Porta San Paolo come a Monterotondo. Nasce da qui il nostro prezioso articolo 1: “La sovranità appartiene al popolo che lo esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Sottolineo “che la esercita” proprio perché da un quarto di secolo la democratica repubblica partecipata nata dalla Resistenza è dimenticata in favore una repubblica “governabile” in cui la sovranità si esercita scegliendosi un capo e (come si diceva per Mussolini) “lasciandolo governare”, o (come si dice adesso) “aspettiamo di vedere che fa”.
Ma non dovremmo essere noi – “il popolo sovrano" – a “fare”?


Patria Indipendente, Aprile 2014  

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