24.5.14

Vincenzo Consolo e il sorriso dell'Ignoto (Gian Carlo Ferretti)

Il sorriso sottilmente ironico dell'Ignoto di Antonello da Messina, in cui «la ragione s'è fatta lama d'acciaio» lucido e tagliente; un sorriso che ne richiama un altro, quello «vivo, acuto, singolare d'un marinaio sconosciuto, d'uno scaltro mercatante », che è poi in realtà un «rivoluzionario acceso», Giovanni Interdonato, avvocato messinese fuoruscito nel 1848 e tornato di nascosto in Sicilia più volte, per organizzare la cospirazione contro i Borboni. E ancora, in generale, il sorriso come segno di una presa di coscienza, che affiora lieve e discreto, o che agisce in profondo come lievito critico, o che si tende nella parodia e nel sarcasmo: il sorriso insomma dello stesso scrittore che racconta.
Da questo motivo, che si emblematizza anche nel titolo, può partire un discorso sul romanzo (Il sorriso dell'ignoto marinaio, Einaudi) con cui Vincenzo Consolo si ripropone con forza all'attenzione dei lettori e dei critici, a tredici anni dalla sua opera prima. Siciliano di Sant'Agata di Militello, intellettuale fine e ricco di interessi politici e sociali, puntiglioso ricercatore di documenti antichi, Consolo ha scritto un romanzo di rara novità ed efficacia.
Le fila della vicenda, tra il 1852 e l'impresa dei Mille, passando per il «moto politico di Cefalù nel 1856», si svolgono e si avvolgono intorno alla figura di Enrico Pirajno barone di Mandralisca, liberale illuminato, collezionista d'arte e affascinato possessore della tavoletta di Antonello, oltre che naturalista studioso di malacologia. Il barone ha rapporti clandestini con l'Interdonato, vive il dramma delle congiure fallite contro i Borboni, resta sempre più turbato dalle manifestazioni di violenta ingiustizia sociale con cui viene a contatto. Ma sarà la rivolta contadina di Alcàra Li Fusi a fargli capire fino in fondo i limiti dello stesso «Ideale» risorgimentale e i problemi delle masse oppresse.
Questa trama, che può far pensare a un sostanziale recupero del romanzo storico, si realizza peraltro in un contesto problematico e linguistico e stilistico estremamente articolato e pregnante. Certo, Consolo si rifa anche alla tradizione ottocentesca: intervenendo direttamente come regolatore della vicenda (a proposito di un foglio: «lo riportiamo qui di sotto, avendo del lettore gran rispetto»), ricorrendo ad alcune classiche situazioni romanzesche (come l'agnizione), perfino facendo uso spregiudicato di un certe formulario retorico («la fiamma della rivoluzione che incendierà tutta l'Italia», «il vile Borbone è finalmente scacciato da questa terra santa»). Ma tali apporti vengono inseriti o rifusi, insieme ad altri diversissimi (il documento, il canto dialettale, la citazione da testi latini o dalle Noterelle di Abba), in una struttura narrativa di autentica modernità e in una stratificazione plurilinguistica, popolare e colta, di eccezionale vivezza. Si direbbe che qui il sorriso, come segno dell'intelligenza, si manifesti nel lucido controllo ironico e parodistico di ribollenti materiali linguistici e dialettali, mutuati e ricreati dalle più diverse fonti. Sì che anche le descrizioni naturali e le divagazioni erudite risultano funzionali al discorso. Sono già stati fatti, a proposito di tutta questa operazione, due nomi: quello di Gadda e quello di Sciascia. E si tratta di ascendenze quasi dichiarate ad apertura di libro dallo stesso Consolo; anche se per il precedente diretto del Consiglio d'Egitto in particolare (richiamato da alcuni) bisogna forse andare un po' più cauti, perché Consolo viene scavando negli archivi siciliani e costruendo il suo romanzo politico-sociale già da parecchi anni. Non c'è dubbio comunque che Consolo riviva la lezione di Gadda e la tradizione letteraria isolana, con una originalità che è al tempo stesso di partecipazione e di distacco critico.
E' questo anche il caso di un motivo fondamentale dei romanzo, riconducibile per certi tratti a una linea di De Roberto-Pirandello-Brancati: il rapporto-conflitto tra intelligenza e pazzia, ragione e natura, cultura e animalità, eccetera. Un rapporto-conflitto che per buona parte del romanzo di Consolo sembra risolversi pienamente nel microcosmo intellettuale del barone di Mandralisca, percorso sì da disagi e insofferenze, ma sostanzialmente unitario e conciliato con il macrocosmo isolano: l'uno, insomma, come nucleo consapevolmente critico dell'altro, come estrema manifestazione di una civiltà nonostante tutto compatta e sopravvivente dentro un mondo arretrato e in profonda crisi. Una civiltà aristocratico-borghese «avanzata», che può continuare a specchiarsi nel sorrìso ironico e saggio dell'Ignoto di Antonello, che può trovare nuova lucidità in quello acuto e vivo dell'Interdonato, che può armonizzare l'amore possessivo per l'arte e gli studi scientifici più «disinteressati» con gli ideali di libertà e di indipendenza, che può leggere nel linguaggio degli animali e delle piante preziosi suggerimenti per lo «spirito»: senza peraltro tagliare alle radici le sue oggettive compromissioni o contiguità con il mondo oscurantista e repressivo che la circonda. Nel barone di Mandralisca, appunto, le idee liberali e il razionalismo anticlericale, possono ancora convivere con quel poco o tanto di «imbecillità» e di «pazzia» che egli di fatto condivide con gli strati più ottusi e immobili o più inquieti e illustri della sua classe e della sua tradizione. Il nobiluomo di Cefalù, porta così nei suoi costumi quotidiani certi rituali usurati e vuoti, e nei suoi interessi per l'arte o per la scienza una voracità da «pirata» o una «mania antica». E la sublimazione di quella razionalità unita a follia, forse si realizza proprio nei suoi accaniti studi sulle lumache, al tempo stesso rigorosa ricerca e catalogazione e «idea strologa, dannata», scienza obiettiva e «passione inveterata».
Tutto questo non è più possibile dopo la rivolta di Alcàra Li Fusi, «disciolta con l'inganno» e repressa dagli stessi garibaldini in nome dell'«ordine». Nella testimonianza in difesa di «villani e pastori» imputati, inviata all'Interdonato quale procuratore generale nel relativo processo, il Mandralisca dichiara la crisi irreversibile del suo ruolo di intellettuale organico alla (nuova) classe dominante: la consapevolezza di una «Storia» come «scrittura continua di privilegiati», di una impossibilità delle classi subalterne a far sentire la loro voce e il loro giudizio, si salda alla consapevolezza dei «vizi» e «storture» che gravano sui pensieri e sulle parole degli stessi aristocratici e borghesi «cosiddetti illuminati», della oggettiva incapacità dei loro «codici» a «interpretare» i problemi delle masse oppresse. «Rivoluzione, Libertà, Egualità, Democrazia», dice il Mandralisca, resteranno per quelle masse altrettante formule vuote, finché non «saranno intiera-mente riempite dalle cose», dalle concrete risposte ai loro bisogni: «la terra» in primo luogo. Di qui la sua rinuncia alle «chine» e alle «penne d'oca», allo «scrivere» e al «parlare », ma anche la sua dichiarazione di impotenza ad «agire»; fino alla decisione di devolvere ogni suo bene a «scuola, insegnamento pei figli dei popolani» della sua città. Altro egli non saprà fare, se non raccogliere e far conoscere le scritte di denuncia e di collera che alcuni imputati semianalfabeti hanno vergato sui muri del carcere: “chista è 'a storia vera scritta cu lu carbuni supra 'a petra”, e questa storia bisogna capire per cominciare un discorso veramente nuovo. [...]
Consolo non vuole proporre qui un modello o programma di comportamento intellettuale. La presa dì coscienza autocritica del Mandralisca, in realtà, manifesta la sua interna fecondità e incidenza a un livello diverso e anche più profondo, con l'incrinatura appunto di quel microcosmo armonioso, di quella civiltà compatta (e dei suoi compromessi più o meno dissimulati), fino ad investire lo stesso livello specifico della cultura e della letteratura.
A questo punto del romanzo, insomma, il sorriso « pungente, ironico, fiore d'intelligenza e sapienza» dell'Ignoto di Antonello, gli si rivela anche « fiore di distacco, lontananza, aristocrazia» e privilegio; esso anzi gli appare «greve, sardonico, maligno» e somigliante addirittura a quello di certi vescovi e ministri borbonici e poliziotti dell'isola.
E' il risvolto, insomma, del motivo della «lumaca», nel senso che quell'intelligenza autosufficiente diventa il risvolto di una scienza tanto «disinteressata» da configurarsi ormai soltanto come una inutile «pazzia»; quel superiore sorriso sembra perfino incapace di giudicare l'«imbecillità» delle forze sociali e politiche più retrive della sua classe, mentre deve prendere coscienza del profondo distacco che lo separa da una classe e realtà nuova, antagonista e protagonista futura (l'Interdonato stesso, che di quell'intelligenza è una delle punte più acuminate, non può fare molto di più che assolvere i rappresentanti del mondo subalterno, restando pur sempre dall'altra parte).
A questo livello, in sostanza, il rapporto intelligenza-follia, ragione-bestialità, più ancora che far esplodere la sua conflittualità (un momento emblematico, questo, della letteratura borghese di crisi), rivela un suo carattere intrinsecamente precario e in qualche modo illusorio, apparente. Il discorso si sposta cioè da un soggetto tradizionale di storia ad un soggetto nuovo, dalla ragione individualistico-borghese ad una ragione collettiva nascente sul terreno di problemi e bisogni reali. E' questo il momento di consapevolezza critica più acuta che Consolo porta all'interno di quella eredità culturale.
Ecco perciò che l'emblematico sorriso dell'Ignoto smuore alla fine del romanzo, e smuore anche il sorriso dello scrittore sulla stessa pagina, su quelle povere scritte sgrammaticate e dialettali, cui l'«alletterato» Consolo-Mandralisca ricorre come a una scelta autocritica interna alla propria stessa scrittura privilegiata.
Il vero simbolo conclusivo è quello della «chiocciola»: immagine di «geometrica» perfezione e di «capricciosa fantasia», ma anche forma concreta di un carcere spietato, «chiara la bocca e scuro il fondo chiuso», «enigma soluto» per costruttori e carcerieri, «bujo e putridume» per i carcerati (i contadini ribelli che vi sono rinchiusi): un buio tuttavia in cui il Consolo-Mandralisca si avventura ansioso e deciso, per «conoscere com'è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell'avvenire».


“Rinascita”, 23 luglio 1976

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