26.5.14

L'indefinibile Pinocchio (Bernardino Zapponi)

Trovo splendido il finale di "Pinocchio"; la conclusione drammatica del bambino per bene che irride a se stesso fantoccio è un' intuizione geniale, che dà l'ultima stretta crudele a tutta la storia. Pinocchio nasce a puntate (sul "Giornale per i bambini", cento anni fa), ed a sbalzi; vi sono salti di molte settimane fra l'una puntata e l'altra; e questo ritmo saltellante, di marionetta, dà stile al romanzo. L'autore, discolo e svogliato come la sua creatura, scrive soltanto quando è pressato dai debiti di giucco; inventa personaggi che poi abbandona o riprende modificandoli, a cominciare da Geppetto. Guardiamo come questi entra in scena: è «un vecchietto tutto arzillo», dall'irreale parruccone giallo, che ha "pensato" di fabbricarsi «un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali». Così andrà in giro per il mondo, per buscarsi «un tozzo di pane e un bicchier di vino».
A parte il pane e il vino, di sapore mediterraneo, qui siamo in pieno Hoffmann; questo Geppetto mattoide è un artigiano-mago, un ciarlatano gotico creatore di pupazzi viventi, dalla vocazione spettacolare e randagia. Ma già nella puntata seguente il distratto Collodi ci conduce in un tipico interno di miseria toscana, dove il mago Geppetto si degrada in padre di famiglia piangente per le impertinenze del "figliolo" (ma non doveva essere un burattino da esibire nelle fiere?), che ha «penato tanto a farlo un burattino per bene». L'altro personaggio-pendant di Geppetto: la Fata: nasce non come fata, ma come una spettrale bambina morta, simbolo di quella foresta di orrori dove Pinocchio verrà impiccato alla quercia e vi morirà; dopo di che la storia si conclude, al termine della puntata c'è scritto ben chiaro FINE.
Passano i mesi. Evidentemente Collodi non ha bisogno di quattrini, Pinocchio è finito. Poi, attizzato dalle proteste dei lettori e del direttore dei "Giornale", forse anche spinto da nuovi bisogni, Collodi rida vita al morticino, ma in che modo? occorre un intervento sovrumano: una Fata, e con disinvoltura l'autore traveste la bambina morta in una «bonissima Fata che da più di mill'anni abitava nelle vicinanze di quel bosco». C'è un che di sbrigativo e di teatrale, una sostituzione d'attrici, ed ecco nascere quel personaggio ambiguo e travestito, che è la Fata dai capelli turchini, dolce e funebre, imprendibile come ogni vera donna, che contribuisce al clima di continua metamorfosi di questo libro indefinibile. Del che è primo simbolo lo stesso Pinocchio.
Quello che rende effìmeri e noiosi tanti protagonisti di storie per ragazzi è la loro definizione precisa, la loro finitezza di ometti, mentre i grandi personaggi come Pinocchio, come Peter Pan, come Alice, sono imprecisi e mutevoli proprio come i bambini, che crescono, cambiano, si trasformano, fino alla tragica metamorfosi finale dell'acquiescenza al mondo adulto. C'è nell'animo infantile un qualcosa di più, o di meno, o di diverso, che è stato appunto espresso dalla ligneità di Pinocchio, dalle ali di Peter Pan, dall'allungarsi e accorciarsi di Alice. E' pensabile che se Collodi non avesse dovuto sottostare alle regole del "feuilleton" non avrebbe creato questa storia stupefacente, compressa in tanti capitoletti separati, ciascuno nutrito d'umori concentrati, dove riversava l'amaro della sua vita quotidiana: perché negli altri romanzi, da Giannettino al penoso Scimmiottino color di rosa si nota un che di asmatico e bolso; d'ispirazione breve. Ma così scisso e intervallato, forse anche talvolta, odiato, Pinocchio è magicamente riuscito capolavoro. A cinquantacinque anni Collodi compì la trasformazione opposta di Pinocchio, e da uomo pratico, benché nevrotico, si fece burattino, rovesciando tutto se stesso in quelle agre, pungenti, stizzite avventure. L'identificazione fu tale che Collodi morì come Pinocchio: bussando a una porta che non si aprì, come quella della casina bianca da cui si affacciò la Bambina morta.


Da “L'Espresso”, ritaglio senza data (anni Ottanta?)

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