16.5.14

Stragi naziste impunite. Fucecchio, giustizia e magia (Luca Baiada)

Un bel saggio che indaga tra gli orrori dell'impunità e gli errori della memoria. Da leggere. (S.L.L.)
L'elenco delle vittime della strage del Padule
alla base del monumento eretto a Larciano
«Nel nome di Gesù e di Maria, se è paura al bimbo la vada via, nel nome di Gesù e di San Pietro, se è paura al bimbo la torna addietro, nel nome di Gesù e di tutti i santi, se è paura al bimbo la un venga avanti». Siamo in Valdinievole, poco dopo la Liberazione, e una donna cerca di guarire l’angoscia di un bambino, sopravvissuto alla strage del Padule di Fucecchio, con queste parole, con preghiere e con l’infuso di un’erba magica.
La palude interna più vasta d’Italia, nelle province di Firenze e Pistoia, il 23 agosto 1944. Almeno 176 morti, molti di loro donne, bambini, vecchi, massacrati dai tedeschi con la collaborazione di fascisti italiani. La strage dei poveri, sono quasi tutti contadini, c’è qualche raro possidente. Il più giovane ha pochi mesi, la più vecchia è nata prima dell’Unità, nella Toscana granducale.
I sopravvissuti hanno visto lo sterminio dei loro cari, sono rimasti sotto i loro corpi, li hanno sentiti urlare, implorare invano pietà. Restano ad abitare nei casolari della strage, macchiati dal loro sangue. Devono affrontare mille privazioni, e il tempo scava in loro un abisso di dolore. C’è chi grida ogni notte. Qualcuno sogna i morti inginocchiati intorno al letto, col capo reclinato sul materasso. Per altri il tempo si ferma, non riescono a parlare, raccontano a gesti la strage. Una donna sarà sconvolta da ogni volo di insetto, le ricorderà sempre i cadaveri in putrefazione. Per i più piccoli le sofferenze saranno indelebili. Mezzo secolo dopo, uno di loro dirà: «Io ‘un son mai stato felice. Ho sempre cercato di sta’ tranquillo, ho fatto il mi’ lavoro, ho fatto la mi’ famiglia. Però, c’è sempre quarcosa dentro, che ti rode, che ti mangia».
Adesso, dopo il processo negli anni 2010-2012, è definitivo: anche Fritz Jauss, nato nel 1917, e Johann Robert Riss, nato nel 1921, sono fra i colpevoli. Erano maresciallo e sergente, nel reparto esplorante della 26ª divisione corazzata della Wehrmacht. Uno vive nel Baden-Württemberg, l’altro in Baviera. La Germania non li consegnerà mai. Un terzo imputato, il capitano Ernst Pistor, è morto durante il processo; e come si dice in Toscana, che Dio l’accresca pena.
Più in alto c’erano il generale Crasemann, comandante della 26ª divisione, e il maggiore Strauch, del reparto esplorante. Il primo è condannato a dieci anni da una corte militare britannica, a Padova nel 1947, il secondo a sei anni dal Tribunale militare di Firenze, nel 1948. Condanne miti, espiate solo in parte (Strauch è libero già nel 1949). La sentenza di Firenze è generosa di attenuanti, come quella degli atti di valore in guerra, e concede le attenuanti generiche per il «particolare stato di esasperazione d’animo dell’imputato e degli altri tedeschi, presi di mira dai partigiani»: la Resistenza, è un’attenuante tedesca. L’anno successivo, il Tribunale supremo militare conferma: i tedeschi «hanno, nel corso di un’alleanza, versato il loro sangue in una guerra comune». Il giudice relatore è Enrico Santacroce, che diventerà procuratore generale militare, e che nel 1960 firmerà l’inaccettabile «provvisoria archiviazione degli atti», serrame dell’armadio della vergogna. Le indagini che conteneva – alcune erano quasi pronte – riprenderanno solo a partire dal 1994.
Il tempo e l’ingiustizia uniti insieme hanno curiosi effetti. Negli anni Quaranta si processano alti gradi, un generale e un maggiore, ma l’esito è scarso. Finita la Guerra fredda si processano oscuri sottufficiali, e l’esito è inefficace. Né Jauss né Riss vengono estradati dalla Germania. Sono condannati ai risarcimenti, ma è improbabile che siano mai stati così ricchi da poter risarcire una strage, e se avevano beni certamente sono stati nascosti.
Tra le finte condanne degli anni Quaranta e queste, c’è l’impunità indisturbata degli altri. Tutti quelli che non avevano alti gradi nel 1944, e che non sono vissuti abbastanza per essere processati dopo il 1994.
Resta la Germania. Ricca più che nel 1944 quando commise la strage, stimata più che nel 1933 quando Hitler prese il potere, e potente più che nel 1914 quando non aveva ancora imparato che vincere una pace rende più che perdere due guerre, la Germania non paga.
Anche per Fucecchio, la Repubblica federale tedesca era stata condannata a risarcire i danni. Ma dopo la sentenza di primo grado del 2011, c’è stata la pronuncia della Corte internazionale di giustizia dell’Aia, a febbraio 2012, sfavorevole all’Italia. A questa decisione la Cassazione si è adeguata, pochi mesi dopo, pronunciandosi addirittura su Marzabotto. Un rapido ossequio, quello della Cassazione, senza sollevare la questione di costituzionalità, malgrado seri dubbi. Nella motivazione su Marzabotto tira un’aria di ragion di Stato, e compare una parola: ineluttabile. Significa, alla lettera, che non si può lottare.
Anche per Fucecchio, nel 2012 è stata revocata la condanna della Germania. È definitivo: ergastoli che non saranno eseguiti, e risarcimento niente.
Pesa su questo un senso di fatalismo, perché processi come quello del Padule hanno un andamento quasi rituale. Approfondimento istruttorio, vibrante esecrazione, ma niente imputati e niente conseguenze patrimoniali. Il sangue rappreso finisce per essere celebrato, mentre si esprimono giudizi severi, senza effetti. Fioccano ergastoli, condanne civili a sei cifre, ma si spara a salve. Sembra un volto incruento della violenza bellica, o forse uno di quei cimeli che si mettono su una mensola. A ogni udienza, la Germania si profonde in scuse solenni a nome del popolo tedesco, circondata da un compunto rispetto. Curioso rovesciamento: in processi celebrati in nome del popolo italiano, a fare una figura grosszügig sono i tedeschi. Nei sottintesi, la violenza è ovvia, scontata. Invece chi la condanna è fazioso, eccentrico. Perché? Ma perché si sa, è la guerra.
Nel film Miracolo a Sant’Anna di Spike Lee c’è un assaggio della cosa di cui sto parlando, più uno stato d’animo profondo che un orientamento consapevole. Dopo la strage a Sant’Anna di Stazzema, nel bosco, un italiano collaborazionista dice: «Questa è la guerra, sai? e nella guerra la gente soffre, la gente more». Il partigiano gli risponde bene, prima di essere a sua volta ucciso: «E quindi secondo te la gente a Sant’Anna doveva morì perché questa è la guerra?». Il senso comune è frequentato subito anche a Fucecchio. Già nel pomeriggio del 23 agosto 1944 un prete si lamenta con un ufficiale tedesco, poi racconta: «Rispose alle mie rimostranze per quell’eccidio: “È la guerra”».
Nel Padule ci furono atrocità, come l’assassinio di bambini, anche piccolissimi, le uccisioni dinanzi ai familiari, l’accoppiamento con una ragazza morente o forse con la sua salma. La narrazione si è estesa ad altro. Uno storico locale, al processo nel 2011: «Questa è una leggenda metropolitana, gliela racconto perché è stata per anni, nella zona di Empoli, un cavallo di battaglia, me la raccontava anche mia madre. Glielo dico per questo, perché poi la notizia della strage girò e si raccontava di bambini lanciati per aria e usati come bersaglio. Bisogna anche dire che questo tipo di azione si ritrova in molte stragi, che io non conosco solo quella di Fucecchio, ma anche in altre stragi, quindi non potrei affermare con certezza che è stato fatto questo». Anch’io in Valdinievole ho ascoltato questo racconto, ma non l’ho respinto come «leggenda metropolitana». Perché? Piuttosto, per chi.
Ci sono stanze della vita in cui la verità non è una formula, ma un rapporto. E in vicende come questa, la memoria non è la consegna di una versione esatta, ma sostanzialmente una relazione fra persone sopravvissute a un trauma, o che ne incrociano le narrazioni. Eppure, anche se criticare certe versioni può essere imbarazzante, è più preoccupante il rischio che il tedesco cattivo oscuri la Germania ingiusta. Rischio grave, specie oggi che i due tedeschi individuati sono vecchi e insolvibili, e la Germania è inossidabile e ricca.
Come per altre stragi, ci si è posti la questione del rapporto tra eccidio e Resistenza. Altri massacri sono a ridosso di attacchi partigiani, ed è stato difficile smentire il luogo comune della rappresaglia, e capire che le azioni partigiane erano semplici pretesti, non cause delle stragi. Così, per esempio, via Rasella e le Fosse Ardeatine. Per il Padule si è scivolati nell’equivoco opposto: che la Resistenza non ci fosse. Vale la pena approfondire, mettendo alla prova i miti della vendetta tedesca e dell’innocenza italiana.
In realtà, nella palude al momento dell’eccidio c’è almeno una formazione, di una ventina di partigiani. Il 19 e il 20 agosto 1944 i tedeschi tentano di entrare, ma sono respinti, e il 21 agosto è attaccato un veicolo tedesco, ferendo due militari. La strage è il 23, fra l’ultima azione e l’eccidio ci sono poco più di ventiquattr’ore. E del resto fra i caduti ci sono un partigiano, Enrico Magnani, e almeno altre due persone in contatto con la Resistenza o con gli Alleati (oltre a un agente di polizia, a un carabiniere e ad altri militari). Prima della strage, per settimane, nella zona i tedeschi uccidono, qua e là, frequentemente e pochi italiani alla volta, mentre i partigiani attaccano in tante occasioni. Cercare un legame di causa ed effetto avrebbe poco senso.
In quel periodo, la parte interna della palude è abitata stabilmente dai partigiani, in rifugi di fortuna; quella esterna, detta «di gronda», dove ci sono case e capanne, da stanziali e sfollati. C’è poi una massa, specialmente maschi adulti, che trascorre parte del tempo nella zona di gronda e parte negli acquitrini, per sottrarsi ai rastrellamenti senza staccarsi dalle famiglie. Ci sono contatti continui fra queste persone, anche perché una parte del bestiame e del raccolto è nascosta nel cannellaio e nella boscaglia. Fra gli abitanti del luogo ci sono fascisti, e alcuni saranno uccisi dai tedeschi dopo aver mostrato le tessere repubblichine; ci sono contadini che aiutano i partigiani, altri sono attendisti.
Anche fra i massacratori, qui come altrove, ci sono italiani: sono informatori, collaboratori, esecutori fascisti in divisa tedesca. Durante la strage, alcuni parlano toscano. Certe vittime sono uccise perché li hanno riconosciuti.
Benché il massacro sia ricordato nel Padule, i tedeschi non entrano negli acquitrini, o fanno qualche accesso alla parte esterna, appena addentrandosi solo in un punto a Nord, al Casotto del Lillo. Quasi tutti gli omicidi sono compiuti nella zona di gronda. Muoiono persone isolate, o interi gruppi di familiari e di amici. I tedeschi credono – oppure, attenzione, così in seguito raccontano di aver creduto – che i partigiani siano centinaia, e invece di affrontarli inoltrandosi nella palude trovano comodo uccidere tutt’intorno.
In un quadro come questo, la definizione di innocenti, con cui spesso vengono indicati i massacrati, è istintiva, ma inappagante. La questione dell’innocenza emerge specialmente nelle interpretazioni che riconducono l’eccidio a cattiva progettazione o esecuzione di un’operazione antipartigiana. Queste teorie sottolineano che le piccole unità in cui i tedeschi sono divisi non sarebbero in collegamento (col fronte vicino, vagano a caso?). Oppure, che devierebbero dal percorso iniziale, dirigendosi verso le case (militari con anni di servizio, perdono l’orientamento?). O ancora, che l’ordine proveniente da Crasemann, comandante della divisione, non sarebbe chiaro (o piuttosto, non viene raccontato con chiarezza nei processi?). C’è poi il fatto, ribadito di recente dal partigiano Ivo Marchetti, che per trasmettere alle unità l’ordine di fine del massacro i tedeschi usano razzi luminosi: dunque, un’operazione pianificata.
In realtà, molte incertezze ricostruttive dipendono dal dar credito alla versione di Crasemann o di Strauch, che nei processi degli anni Quaranta si rimpallano le responsabilità in un modo disgustoso. Guardarsi bene, dall’accogliere acriticamente la tesi dell’uno o dell’altro. Probabilmente su certi aspetti mentono entrambi.
Il rischio, sul Padule, è pensare che i tedeschi cerchino invano i partigiani, e che questa sia la causa della morte degli altri italiani. Così, a distanza di tanti anni, ripetendo come un tic che i morti erano innocenti, si ammette sottotraccia che si cercavano i colpevoli, cioè che la Resistenza era una colpa. Invece la magnifica ballata locale Popolo se mi ascolti, antica quasi quanto la strage, dice: «Eran tutti innocenti, / poveri cuori umani. / Dissén que’ malviventi: “Voi siete partigiani”…». Cioè attribuisce ai tedeschi la convinzione che gli italiani fossero tutti partigiani, ma si guarda bene dal negarlo, sapendo che la Resistenza è stata fatta in molti modi. Però non ammette che lo fossero, e quindi non offre argomenti giustificazionisti. Certamente in gamba, chi cantò per primo questi versi.
Come per altre stragi, le narrazioni convenzionali sottolineano nei tedeschi la brutalità, la ferocia, la prepotenza, cose molto diverse dalla colpa. Certe espressioni di stile (l’efferatezza, la barbarie, eccetera) hanno uno strano retrogusto; sembrano una copertura del sospetto indicibile che i massacrati fossero colpevoli di qualcosa. E a volte, alle affermazioni secondo cui i morti erano innocenti, non ne corrispondono di altrettanto nette che i tedeschi fossero colpevoli. Infatti, in certe letture vengono accusati non di aver fatto violenza, ma di non averla indirizzata bene, nel modo giusto, cioè mirando dritto ai partigiani.
La sostanza è chiara. A Fucecchio, per i tedeschi la distinzione fra partigiani e italiani è sbiadita quando si tratta di uccidere, ma nitida quando si tratta di combattere. Non entrano nella palude, dove sono i partigiani, ma uccidono nella zona circostante, dove non rischiano. I miti del coraggio e dell’esattezza dei tedeschi ne escono ridimensionati. In questo senso, il Padule ha caratteristiche assolutamente particolari, forse più odiose persino delle Ardeatine, dove insieme a persone davvero indifferenti o contrarie alla lotta partigiana, cadono elementi di prim’ordine della Resistenza. Qui gli armati non si dirigono contro gli armati, ma contro i disarmati, e ne fanno strage.
Con la questione dell’innocenza, si intreccia quella del perché. E occorre cautela: il perché è il tarlo con cui la vittima costruisce la sua colpa immaginaria, e questo è più evidente dove più il crimine manca di spiegazioni. Al processo nel 2011, un teste parla per molti: «Non l’ho mai saputo e me lo sono sempre domandato. Nessuno è mai riuscito a sapere». Anche la collocazione in un luogo cui la storia sembra girare intorno senza attraversarlo, il mondo dei padulani antichi come le nebbie che danno il nome alla Valdinievole, il mondo dei panorami leonardeschi e dei barchini rimpiattati fra i bozzi e le giuncaie, dà alla strage un’assurdità quasi surreale. Il monumento ai caduti a Castelmartini si chiama Lo stupore, e vi campeggiano figure fisse in un incolmabile sbigottimento. Fra i lavori di un’iniziativa didattica di qualche anno fa, Alle Partisanen, ci sono opere d’arte con lo stesso stato d’animo.
La mancanza di spiegazioni continuerà a incombere, molti anni dopo. Marcello Mazzei: «Ne abbiamo parlato tante volte, dopo, con Bruno Fagni, con la Bruna, con Giuseppe che era un fratello, prima che morisse, ma non ci siamo mai dati una spiegazione». Mazzei, a casa Silvestri, perde la mamma e un fratellino di due anni: «La prima raffica che venne sparata colpì mia madre ad un occhio e l’ammazzò sul colpo, e lui era in terra e continuava a ripetere “mamma bua… mamma bua… mamma bua…”. I tedeschi, che erano già andati via, tornarono indietro, uno di loro prese il moschetto per la canna, gli mise la testa al muro e col calcio gli spaccò la testa in quattro pezzi». Giovanna Simoni perde sua madre e sua sorella: «La mi’ sorella l’ammazzonno, aveva sedici anni. Urlò tanto: “Un m’ammazzate, un m’ammazzate”, ma poi l’ammazzonno. Mi trema la… scusate, mi trema, a senti’ quel che è passato. L’ho sempre davanti, guardi. Vede’ quello strazio che han fatto. Un po’ ‘un si capiva neanche, se diceva qualcosa. I tedeschi ‘un si capivano. Solamente che eran cattivi, per ammazzare i bimbi come l’ha ammazzati». Il perché è direttamente proporzionale al peso del trauma.
Proprio collegata alla mancanza di spiegazioni, o piuttosto alla trappola della ricerca di spiegazioni, è la questione della trasmissione del lutto, che si affaccia nel processo del Padule per una via inconsueta. Un avvocato di parte civile, nato dopo, parente di caduti e presente nel processo per sé e per la famiglia, invoca le teorie di Anne Ancelin Schützenberger sul riemergere dei traumi nelle generazioni successive (teoria del genosociogramma, detta «sindrome degli antenati»). La questione apre scenari inquietanti.
A distanza di generazioni, gravi sofferenze riemergono nella vita di persone che non le hanno vissute direttamente, che sono nate dopo, e persino che non ne hanno mai sentito parlare, a volte proprio perché non ne hanno sentito parlare. In che misura questo accada, e come, è controverso, e la stessa Schützenberger non offre una spiegazione convincente. Ma le sue citazioni della teoria del Rebirth, sulla trasmissione dei sogni da madre a feto, che permetterebbe al nascituro di accedere per via onirica all’inconscio materno, e delle teorie di Françoise Dolto sulla possibilità del bambino di percepire addirittura l’inconscio sino a tre generazioni addietro, attraverso la madre, meriterebbero una trattazione a parte.
Ancora più a fondo, le geometrie della violenza si presterebbero alla possibilità, accennata dalla Schützenberger, di applicare alla memoria un modello frattale, che permetterebbe di capire le conseguenze della strage su un’intera comunità. Nel Padule, i cognomi di nascita delle 176 vittime sono soltanto 91, ma se si escludono le donne maritate con uomini dal cognome già presente nell’elenco, i cognomi si riducono ancora, e alcuni sono così simili che sembrano derivare da radici comuni. Se si considera che proprio un modello frattale sarebbe alla base della trasmissione dei ricordi durante la gestazione, anche attraverso il battito cardiaco materno, e che qui sono colpiti pochi ceppi familiari molto connessi, il tema apre interrogativi che lascio agli specialisti, augurando un coraggio che per ora mi pare scarso, almeno in Italia.
Ancora su innocenza e perché. Inevitabilmente, processando militari tedeschi, si ripercorre la questione del perché il crimine, per motivi legali che qui tengo da parte. Ma ce n’è un’altra: perché la giustizia. Perché processi su stragi così remote? La domanda sino ad ora è stata affrontata in modo frammentario. Non ho risposte, solo qualche spunto.
Giuridicamente, non c’è un termine finale per questi processi. In teoria l’identificazione di un tedesco, allora giovanissimo e poi longevo, potrebbe portare a una sentenza anche fra anni. Su questi fascicoli, la parola fine sarà a lungo scritta solo col lapis. Però la consegna di tedeschi dalla Germania non ci sarà, e né i privati né lo Stato tedesco pagheranno.
L’assenza di risarcimento fa slittare la questione sul terreno simbolico, memoriale, mistico. Al processo nel 2012 è stata riepilogata, insieme alla «responsabilità morale» tedesca, la proposta di iniziative pagate da Berlino. Forse si pensa a monumenti, mostre, comunicazione. Il lutto diventa un prodotto. Venderebbero oggettistica al guardaroba? A chi, l’appalto delle merendine? Meglio raspare mota nel Padule, vagando per i fradici sentieri, col cuore stretto e i lucciconi agli occhi, a costo di inzupparsi le ossa come è successo a me. Si può sempre bere qualcosa a un circolo, a Stabbia, a Massarella, a Ponte Buggianese, e incontrare italiani che sono persone, con la voglia di parlare e ascoltare. Come è successo a me.
Forse in questa attività giudiziaria ci sono, insieme al tentativo di un discorso sul trauma, sostituzione dei fatti con simboli, e drammatizzazione. Ma chi ha incontrato i parenti delle vittime sa che apprezzano anche sentenze senza effetti concreti, e sarebbe disonesto non scriverle. A chi ha versato sangue è baro offrire inchiostro, ma a chi ha avuto solo inchiostro sarebbe ingiusto cavare anche quello.
Forse, su stragi come questa, il processo si scarnifica di ogni effetto pratico e snuda la sua funzione magica. Ricompare un logoro canovaccio, che ripugna alla ragione ma che non si riesce a superare? E il giudice, il pubblico ministero, l’avvocato, diventano più taumaturghi che giuristi? Dissolto il nobile viso della giustizia, ecco che biancheggia il suo teschio. Ride o ammonisce?

Non si sa, e c’è da aver paura. «Nel nome di Gesù e di Maria, se è paura al bimbo la vada via…».

da "Il Ponte", LXIX, n. 7, luglio 2013

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