16.5.14

Amore e Psiche. Apuleio e il mistero dell’anima (Franco Manzoni)

Un autore dalla personalità polimorfa, complessa e contraddittoria. Le fonti lo tramandano mago, alchimista, avvocato, scienziato. E ancora filosofo platonico, sacerdote del dio Asclepio e di culti misterici, appassionato di occulto, esoterismo e riti iniziatici come quelli di Eleusi, Mitra, Iside. Nato verso il 125 d.C. a Madauro, nell’odierna Algeria, da famiglia benestante, Apuleio studiò a Cartagine e ad Atene. Si vantava di conoscere a fondo ogni artificio retorico e di padroneggiare con virtuosismo il greco e il latino. Per il resto poche e incerte sono le notizie sulla vita di uno scrittore che fu il personaggio più poliedrico dell’età degli Antonini. Di lui più nulla sappiamo dopo il 170.
Apuleio esercitò un naturale fascino sull’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. La sua opera maggiore, le Metamorfosi, divisa in undici libri, è l’unica testimonianza pervenuta intera di un romanzo antico in lingua latina, la cui diffusione si deve a Boccaccio, che ritrovò il codice e ne fece una trascrizione. Il titolo nei manoscritti è Metamorphoseon libri XI, ma l’opera è conosciuta anche come Asinus aureus, così indicata da sant’Agostino nel De civitate Dei (XVIII 18). La storia delle eccezionali avventure di un uomo trasformatosi in asino non è un’invenzione di Apuleio. La trama deriva da un modello greco di Lucio di Patre, opera che non ci è giunta, ripresa in modo sintetico da Luciano di Samòsata, poligrafo coevo di Apuleio, che scrisse in greco Lucio o l’asino.
L’originalità dell’autore latino consiste nel fatto di essere riuscito a rielaborare materiali preesistenti, assegnando significati mistici, metafisici e simbolici autoctoni, che cambiano radicalmente la struttura e gli intenti della narrazione. Non solo puro intrattenimento. Vi è sottesa una progettualità geniale, che riesce a unificare una folla di racconti popolareschi, passionali, erotici, iniziatici. Sullo sfondo dell’odissea di un uomo-asino, Apuleio crea il libro nel libro, mettendo al centro dell’opera la celebre Favola di Amore e Psiche, una narrazione interna in forma di apologo, che occupa i libri IV, V e VI e rispecchia fedelmente l’andamento del romanzo.
Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra.
Ma Amore s’innamora di Psiche. La trasporta nel suo palazzo, dove ogni notte il dio, invisibile al buio, a lei si unisce. Vedere il viso del misterioso amante, però, romperebbe l’incantesimo. Spinta dalla curiositas, la stessa che nella trama generale delle Metamorfosi «costringe» Lucio a provare l’unguento magico che invece lo trasforma in asino, Psiche decide di conoscere Amore, illuminandolo con una lucerna. Si punge con una saetta presa dalla faretra del dio e, perciò, s’innamora perdutamente. Tuttavia, una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, svegliandolo. L’incantesimo è finito, il dio fugge e Psiche, disperata, si mette alla sua ricerca. Seguono peripezie e terribili prove da superare, congegnate dalla gelosissima Venere. Alla fine Amore sposa Psiche, ottenendo per lei da Giove l’immortalità. Dalla loro unione nasce la figlia Voluttà.
La storia dell’interpretazione allegorica è plurisecolare. Il racconto ha un iter travagliato: una sequela di cadute, riscatti, dolori, piaceri spirituali dell’Anima umana. Giace sotto ogni evento il pensiero platonico, nella favola come nell’intero romanzo. La vicenda di Amore e Psiche, così ben colta nel capolavoro scultoreo neoclassico di Canova, è incentrata sul destino dell’Anima, che, per aver commesso il peccato di hybris, vale a dire «tracotanza», tentando di penetrare un mistero che non le era consentito svelare, è costretta a scontare la propria colpa con umiliazioni e affanni di ogni genere, prima di essere degna di ricongiungersi al dio. Lo stile di Apuleio è denso di frequenti neologismi, rarità lessicali, giochi di parole, arcaismi, di toni ironici, patetici, delicati, di estrema tenerezza come nell’episodio della deflorazione di Psiche.


Corriere della Sera, 14.06.2012

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