11.6.14

In morte di Primo Levi (Cesare Cases)

Lo conoscevo da quarantacinque anni o giù di li, anche se in tutti questi anni per una ragione o per l'altra ci siamo incontrati poche volte. All'inizio della guerra stava a Milano insieme a qualche altro giovane ebreo torinese che aveva trovato lavoro nella grande città — dove per un ebreo era più facile mimetizzarsi — e spesso essi trascorrevano le serate a casa mia. Ma io allora ero già in Svizzera e ho un ricordo preciso dì Primo solo quando venne a trovarci dopo la guerra: il suo fortunoso ritorno da Auschwitz, raccontato nella Tregua. Parlava molto, senza fretta e scegliendo le parole, come un reduce da un altro pianeta che deve riprendere i contatti con i terrestri e sa che non lo capiranno ma che il suo posto è tra di loro perché è di là che viene ed è la speranza li ritornare là che l'ha tenuto in vita in quei luoghi infernali. Anche di recente nei colloqui con Philip Roth, Primo aveva insistito su questa speranza di chi ha casa, famiglia amici che lo aspettano, di fronte alla situazione di tanti ebrei il cui mondo era stato interamente distrutto. E nella meraviglia degli ebrei polacchi di Se non ora, quando? alla. vista di questa borghesia ebraica italiana rimasta largamente intatta e omogenea all'ambiente, c'è la coscienza di questo privilegio. E' esso che rese possibile a Primo di raccontare quasi subito, recuperando il linguaggio che gli avevano così bene inculcato a
scuola e che nessuna Babele linguistica aveva potuto intaccare.
Meno riuscita mi pareva la ripresa di contatto con quel corpo che aveva perso quasi del tutto. Era come uno zombie reincarnatosi di colpo, o come un dannato dantesco che il giorno del giudizio ritrova il proprio corpo e lo indossa al modo di un vestito dismesso da tempo e che gli sta troppo largo. Mi sembrava che delle tracce di questa difficoltà fossero rimaste dopo tanti anni. La caricatura di Pericoli in cui lo si vede di tre quarti con la mano di ragno assomiglia (come dev'essere forse ogni buona caricatura) più all'essenza che alla realtà di Levi, o al Levi di prima di Auschwitz.
Auschwitz lo trasformò da chimico in scrittore, prima occasionale, poi professionale, infine in uno scrittore di successo la cui fama aveva invaso l'America. Era rimasto quello di sempre, proteso a chiarire e spiegare se stesso e il mondo con l'indefettibile razionalismo che appare nel volto arguto e nel gesto della mano nella caricatura di Pericoli. Uno dei suoi ultimi scritti fu un bellissimo trafiletto della Stampa a proposito della polemica suscitata dagli storici tedeschi di destra che contestavano l'unicità del massacro nazista degli ebrei. Egli ribadiva questa unicità fermamente e serenamente, con ottimi argomenti, ma si sentiva la stanchezza che deve continuare ad accennare con la mano al gesto che dice: «Ma come fai a non capire?». Egli ricordava, con la terminologia scientifica che era sua, che solo i tedeschi avevano escogitato un campo come Treblinka che era un «buco nero», un luogo dove si andava soltanto per scomparire. Per fortuna non era stato a Treblinka ma a Auschwitz, era miracolosamente sopravvissuto e aveva raccontato. La sua ragione aveva trionfato su Auschwitz ed è estremamente improbabile che sia stato questo ricordo incancellabile a ucciderlo, com'è successo nel caso di Paul Celan o di altri.
Non diamo la colpa a Auschwitz, questa volta. Non c'è bisogno dei campi di annientamento nazisti per mettere a dura prova la saldezza della ragione. I mostri si annidano anche nelle forme più quotidiane e apparentemente innocenti dell'esistenza, per esempio nello stress cui è sottoposto oggi lo scrittore di successo, e quando meno ce lo si aspetta si spalanca qui un buco nero che può risucchiare perfino chi ha soggiornato tredici mesi nel buio dell'inferno.


“il manifesto”, 12 aprile 1987

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