11.6.14

La stella di Enrico Berlinguer (Aldo Natoli)

Aldo Natoli conobbe assai bene Enrico Berlinguer che, tra l'altro, fu suo successore come segretario regionale del Pci nel Lazio, ma questo suo profilo, apparso in occasione della morte del leader comunista, non mostra alcuna indulgenza per l'aneddotico, piuttosto - con rare capacità di sintesi - tende a cogliere i nodi problematici della sua figura e della sua ricerca, il suo ruolo nella storia. La vicenda di Berlinguer, della cui leadership sono indicate luci ed ombre, viene inquadrata - come dev'essere - dentro le coordinate del comunismo novecentesco, ma molti saranno stupiti di come, nell'immediatezza della scomparsa del popolare segretario, Natoli sappia antivedere e definire i dilemmi irrisolti che porteranno alla fine il più grande esperimento politico del secondo Novecento italiano, il Pci di Gramsci, Togliatti, Longo e, appunto, di Berlinguer. (S.L.L.)


La tragedia di Enrico Berlinguer è sopravvenuta nel momento forse più basso e torbido della vita pubblica italiana di questo dopoguerra. Improvvisamente si è taciuto il coro di voci false e stridule. Si è imposta come una pausa di rispetto, in uno sgomento che è parso universale, valori già desueti e sentimenti abitualmente repressi sono tornati per un momento in circolazione e forse si capirà di nuovo che lottare per un ideale fino alle estreme conseguenze è cosa nobile, semplice e bella, come chi si muove fissando una stella, secondo il motto del grande Leonardo. E, forse, per commentare questo dramma non occorre fare discorsi commemorativi, ma cercare di capire, discernere come e quando il filo della storia finisca con il confondersi con il filo che incessantemente scorre fra le dita della Parca.
Berlinguer è stato il primo segretario non terzinternazionalista del Pci, è giunto alla massima direzione del più grande partito comunista dell'Occidente ancora relativamente giovane ed ha avuto in sorte di essere prima collaboratore e poi successore dei due segretari che lo avevano preceduto, uomini che si chiamavano Palmiro Togliatti e Luigi Longo e che erano stati, l'uno e l'altro, fondatori del partito e membri autorevoli, dirigenti e protagonisti della III Internazionale, partecipi, nel bene e nel male, della sua storia, portatori non solo passivi della sua strategia, della sua cultura, della sua epica e della sua disumanità. E ciò per oltre due decenni (altro che anni di piombo!), fino a quando, finita la seconda guerra mondiale, l'uno e l'altro intraprendono la ricostruzione del partito comunista in Italia, sperimentando la sua lenta fuoriuscita da quella tradizione, il suo superamento nella continuità. E' una ricerca di un guadagno di autonomia, ora cauto e paziente, ora più franco e aperto (come nella crisi del 1956); mantenere una scelta di campo inalterata, senza cercare rotture, ma con gesti di autonomia sempre più decisi, come al tempo del Memoriale di Yalta, che l'uno scrisse poco prima di morire e l'altro pubblicò senza attendere il consenso dei dirigenti sovietici (1964).
"Unità nella diversità", si diceva, e questa formula per qualche tempo sembrò flessibile e sottile, ricca di risultati, più di quanto le sue intime contraddizioni non consentissero nel lungo periodo. Berlinguer entra nel Pci nel 1943. E' l'anno della caduta del fascismo, dell'inizio della Resistenza, ma è anche l'anno dello scioglimento della III Internazionale. Una coincidenza puramente casuale, ma come non scorgervi un nesso in qualche modo simbolico? Si noti, la seconda generazione di comunisti era giunta al partito intorno al 1928 e al VI congresso dell'Internazionale comunista (è il caso, per esempio, di Giorgio Amendola); la terza generazione vi giunse dopo il VII congresso, con la politica di Fronte popolare e la guerra di Spagna (è il caso mio, di Lucio Lombardo Radice, di Paolo Bufalini e di tanti altri). La quarta generazione (quella di Berlinguer) lo farà al momento dello scioglimento del Comintern, entrando contemporaneamente nella Resistenza.
Per la formazione politica di Berlinguer la politica di unità nazionale ha un valore decisivo, è un dato originario, non relativizzato dalle precedenti svolte tattiche del Comintern, quindi un dato assoluto. La prima generazione comunista post-internazionalista vive un processo di maturazione che è essenzialmente resistenziale-nazionale. Si capisce che essa può felicemente e fiduciosamente identificarsi con il "Partito nuovo" di Togliatti, con la grande prospettiva, caduto il fascismo, di ricostruire il paese in uno sviluppo democratico e, se possibile, progressivo. Berlinguer in quegli anni, alla testa del movimento giovanile comunista, esprime fedelmente questi orientamenti ed ideali, non senza alcune accentuazioni, forse solo culturali, di derivazione gramsciana.
Naturalmente, alla base è come connaturata una forte scelta di campo: essere comunisti significa essere dalla parte dell'Unione Sovietica, senza riserve. Almeno fino al 1956. Solo dopo questa data la "unità nella diversità" cominciò ad indicare il difficile e ancora non esplorato percorso per la fuoriuscita dallo stalinismo e per il superamento del legame di ferro con l'Urss. Berlinguer percorre tutte queste tappe non senza travaglio, non senza l'assillo della intangibile continuità. Leggete il suo intervento al tempestoso VIII congresso del partito (dicembre 1956). Fino al 1968-1969 la sua linea nei confronti dell'Unione Sovietica è fedelmente quella di Togliatti, i suoi testi sono l'intervista a "Nuovi Argomenti" sullo stalinismo e il Memoriale di Yalta, ma in questo periodo egli è ancora relativamente in ombra. Sarà soltanto nel giugno 1969, alla Conferenza dei partiti comunisti e operai tenutasi a Mosca (che fu l'ultima conferenza "mondiale" di questo tipo), che Berlinguer emerge improvvisamente esponendo la linea di dissenso pressoché totale e il rifiuto di votare i tre quarti della risoluzione proposta, da parte del Pci.
L'uomo (da pochi mesi egli è già a fianco di Longo) emerge improvvisamente come un leader di levatura internazionale, coraggioso e misurato insieme, rappresentante di un grande partito che, dopo l'invasione della Cecoslovacchia, trova ormai inadeguata la formula della "unità nella diversità" e contesta l'identità fra la politica di potenza e i confini del socialismo. Tuttavia, il limite della posizione del Pci, esposta da Berlinguer, consisteva nel non chiarire che le cause del dissenso investivano i princìpi stessi dell'internazionalismo comunista, sia nella concezione del "modello" socialista, sia la strategia rivoluzionaria e le sue forme diversificate in differenti paesi. Dovranno trascorrere 11 anni e ci vorrà il colpo di stato militare in Polonia perché questi problemi vengano affrontati senza reticenze nei loro contenuti, risalendo alle origini, ai limiti organici ormai paralizzanti del movimento rivoluzionario scaturito dalla Rivoluzione d' Ottobre.
Qui si è espressa nel modo più avanzato la capacità innovativa di Berlinguer di fronte ai tabù più oppressivi della tradizione del movimento comunista, la cui rimozione egli aveva tenacemente preparato negli anni precedenti, portando avanti l'audace (ma finora sfortunata) iniziativa eurocomunista. Ma rimuovere i tabù è sufficiente per ridonare "forza propulsiva" al movimento comunista? Tenterò più avanti di dare una risposta a questo interrogativo, intanto mi preme ricordare che anche sul piano della politica interna, Berlinguer nel corso degli anni 70 (dal 1972 era succeduto a Longo come segretario del partito) seppe fornire un notevole sforzo di invenzione strategica, alludo alla proposta del "compromesso storico", di chiara derivazione gramsciana (il "blocco storico") e togliattiana (l'alleanza con i cattolici come asse). In realtà, una armonica fusione fra queste due componenti non si avverò mai nella pratica e il prevalere della seconda, dopo aver permesso spettacolosi guadagni elettorali nel periodo più acuto della crisi della Democrazia cristiana (1975-1978), naufragò nel collaborazionismo subalterno del periodo della "solidarietà nazionale". Fu un grave errore, forse dovuto ad un eccesso di fiducia nelle proprie forze, nella capacità del partito di destreggiarsi con successo pur senza stare né al governo né all'opposizione. Anche se non possiamo sapere quale sarebbe stato lo sviluppo degli avvenimenti senza l'assassinio di Aldo Moro, è certo che già nella primavera del 1978 nell'area di influenza del partito e nelle sue file si erano largamente diffusi malcontento e delusione per l'evidente insabbiamento della politica di "solidarietà nazionale", mentre nell'insieme della sinistra, specialmente nel partito socialista, era cresciuta diffidenza e ostilità verso la politica comunista.
Dopo l'insuccesso nelle elezioni del 1979, tardiva e nervosa fu la rettifica. Fu questo certamente il periodo più difficile e travagliato della direzione di Berlinguer: meccanica e semplicistica doveva apparire la nuova svolta dell'"alternativa democratica", tanto più in quanto la necessaria unità a sinistra appariva non credibile a causa della nuova, aggressiva, concorrenzialità socialista. Sempre più chiaramente cominciò a profilarsi, per la prima volta, per il partito l'apertura di un periodo di declino. Un fenomeno temporaneo, contingente o una inversione di tendenza, l'apertura di una nuova fase storica, in relazione con i mutamenti profondi intervenuti nell'economia, nella società, nel costume? Il partito non era forse rimasto indietro rispetto alla rapidità del cambiamento? Non avveniva forse questo sotto l' influenza di altre forze politiche e sociali? Non si profilava il pericolo di una perdita di egemonia? Questi interrogativi sono stati certamente nelle riflessioni di Berlinguer in questi ultimi anni. Spezzoni di risposte sono venuti dalla ricerca e dall'attività pratica del partito, ma sono mancati disegni coerenti, flessibilità tattica, prospettiva strategica. La difficoltà della situazione si è manifestata in scarti, oscillazioni, punte febbrili, fino a quando il partito è stato costretto alla inevitabile battaglia d'arresto della lotta contro il decreto sulla scala mobile. Possiamo intuire il logorio determinato dall'asprezza di quello scontro, lo sforzo supremo di fare appello alla radice sociale delle forze di classe più sicure, senza chiudere le aperture verso il futuro, raccogliere e conservare l'essenziale delle proprie forze nell'urto ravvicinato e guadagnare il tempo e il fiato necessario per riprendere il cammino guardando più lontano, questo deve essere stato l'assillo dei suoi ultimi giorni. Gli è stata imposta l'eredità più pesante: traversare senza perdite il guado imposto al movimento comunista dalla storia e affrontare con audacia e fino in fondo la grande mutazione e l'incontro con le più avanzate socialdemocrazie dell'Occidente; ovvero ripensare l'identità comunista, guardando alle nuove contraddizioni dell'universo capitalistico. Nell'un caso e nell'altro i tabù dovevano essere totalmente distrutti, la rottura con la tradizione sarebbe stata completa, ma il rischio del non decidere sarebbe stato fatale, una tragica aporia, un declino inevitabile. E' di fronte a questa alternativa che il coraggio, la forza morale, la fedeltà agli ideali, il senso storico di Berlinguer, insieme e anche in contraddizione fra di loro, hanno forse esitato. E' questo il bivio sul quale il dramma lo ha sorpreso.


“la Repubblica”, 12 giugno 1984

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