9.6.14

La Ruota dei trovatelli. Una mostra a Milano nel 1980 (Silvia Giacomoni)

Un articolo di cronaca, su una mostra milanese del 1980, con alcune notazioni che aiutano a capire il significato profondo della Ruota e la cultura che si esprime in codesta istituzione. (S.L.L.)

Quattro padri per un neonato
MILANO
Mosè, Edipo, Remolo e Remo: questi illustri trovatelli, ritratti da mani più o meno famose, aprono il percorso della mostra Esposti e abbandonati, inaugurata iersera, nell'aula magna di Brera. Alla cerimonia era presente il cantastorie pavese Adriano Callegari, uomo ancora capace di far piangere sulla perfìdia delle madri. L'accostamento non sembri ironico. La mostra si muove su due piani: da un lato documenta il tipo di assistenza che Milano assicura, fin dall'alto Medioevo, ai trovatelli; dall'altro evoca, con ben piazzati suggerimenti, alcuni del modi con cui gli uomini hanno cercato — nella cultura — di venire a patti con la realtà dell'abbandono.
Nel breve percorso zigzagante, ira vetrine e pannelli, il visitatore è bombardato da messaggi di gran contenuto emotivo. Lo «xenodochio», primo ospizio per trovatelli d'Europa, fondato a Milano nel 787 dal prete Dateo. La ruota della Ca' Grande, che ha smesso di girare solo nel 1868. I libri degli ospizi, con la puntigliosa annotazione degli arrivi di bimbi, madri, balie.
«Marini Giovanna, nubile di Vidigulfo, accettata gràvida, raccomandata da sua eccellenza la signora contessa Archinti, à deposto che il padre della creatura è un balosso che la sforzò su d'una strada». «Basti Rosa, nubile di anni 30, à deposto che i complici sono molti ». Una donna di cui non decifriamo il nome, dice che «i padri della creatura sono quattro cacciatori che la sorpresero mentre faceva legna». Queste sono testimonianze della seconda metà del '700, scelte tra le migliaia. Nel loro linguaggio burocratico, insieme con le cifre da capogiro, ci dicono che l'abbandono è, nella storia dell'uomo occidentale, «cosa normale».
Per questo, forse, il tema dell'abbandono non ha trovato alte forme di espressione artistica, se non per il tramite del mito. Quando il trovatello non è raccolto né dal Faraone, né da Giocasta, suscita al massimo indignazione o pietà. Vediamo alla mostra opere di Cremona, Zandomeneghi, Gemito: non ci dicono nulla. La riproduzione del quadro di Hogarth, Gin Lane, ci pare un'allegoria. La bibliografia dei romanzi dell'800 imperniati sull'abbandono e i brani della Ginevra di Antonio Ranieri, ci fanno ridere, come le locandine delle Due Orfanelle o i testi delle canzoni strappalacrime. Si ha l'impressione che il tema dell'abbandono, la contraddizione tra l'orrore che presumibilmente dovrebbe provocare, e la sua «normalità», sia irriducibile all'arte.
Ma alcuni pannelli, alla mostra milanese, colpiscono per la grande bellezza degli oggetti che espongono. Si tratta di bolle a. stampa, compilate dal portiere che ha ritirato la «creatura» dalla ruota: riportano la data, l'ora, il numero di «patelli, pattone, fascie, cuscini e cuffini» in cui il neonato era involto. Sulle bolle sono appuntati i «viglietti» che erano appesi al collo del neonato: una scritta, più o meno lunga, e un «segnale».
C'è un «viglietto» — un cartoncino a decorazioni bianche e seppia — che dice: «Si prega questo luogo Pio di voler tenere esatto registro, a ricordo di questo bambino, intendendo li suoi parenti di riaverlo a suo tempo. Fratanto sarà distinto con il nome di Maometto II».
I «segnali» sono coroncine di rosario, pettini, puntaspilli, carte da gioco, monete, immagini sacre: ma tutti tagliati secondo linee bizzarre, che permettono, a chi è in possesso dell'altra metà, il riconoscimento. Addirittura: il ricongiungimento.
Ci troviamo quindi di fronte a dei collage, che accostano in modo straordinario il documento burocratico, l'espressione di un proposito e di una speranza, e un povero oggetto quotidiano dilaniato, nel tentativo di imprimervi un preciso segno di identità. In questi collage la «normalità» dell'evento (nella bolla burocratica) coesiste con la sua indicibile eccezionalità (nel segnale). E c'è anche spazio al grottesco e all'ironico: il bimbo che avrebbe dovuto chiamarsi Maometto venne battezzato Mamete.


“la Repubblica”, senza indicazione di data, ma 1980

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