9.6.14

Re Lear. Satana, il vecchio e il matto (Cesare Garboli)

Luca Ronconi nel 1995 mise in scena Re Lear al teatro Argentina di Roma, con Massimo De Francovich nel ruolo del protagonista e la scenografia di Gae Aulenti. La traduzione della tragedia shakespeariana fu affidata a Cesare Garboli che, per il programma di sala, scrisse anche l'articolo che segue. Il testo fu pubblicato come anticipazione dal quotidiano comunista “il manifesto”. (S.L.L.)
Massimo De Francovich e Corrado Pani nel "Re Lear"
allestito da Luca Ronconi per il Teatro di Roma nel 1995 

Nel criticism sul King Lear si è fatto un gran discutere, una trentina d'anni fa, se sia giusto interpretare una tragedia pagana in chiave cristiana. Il primo a parlare di «Redemption» di re Lear attraverso le sofferenze era stato A.C, Bradley, ai primi del secolo; ma anche Wilson Knight (1930) era rimasto sbalordito dai toni «purgatoriali» della tragedia: «II naturalismo di King Lear — diceva - impallidisce davanti a un'accecante lama di luce trascendente». Così si è fatta sempre più strada la convinzione che una tragedia «in a pagan setting» (però abitata dai diavoli) sia in realtà una via crucis, un viaggio attraverso prove terribili verso la rinuncia al mondo e la conquista della propria anima. Il plot, per intenderci, si dividerebbe dal messaggio. La storia è in nero, ma tutti si denudano e il messaggio è luminoso.
Io ho sempre preferito leggere King Lear come una tragedia dove due strade s'incontrano. Si sa che il King Lear è fatto di due storie, una principale e una secondaria; ma si fa scarsa attenzione al fatto che le due storie viaggiano in direzione contraria.

Come Caino e Abele
Una, quella che fa capo all'insopportabile monarca e alle sue tre figlie (le sorellacce e la Cenerentola), descrive il progressivo assatanamento che nasce dal gusto del potere (chi lo tocca diventa subito indemoniato); l'altra, la tragedia del fatuo e disperato Gloucester coi figli Edmund e Edgar (Caino e Abele), è una delle tante, antiche varianti dell'uccisione del demonio. Tra queste due storie, due fili nerastri tinti di un eguale rosso-sangue, io preferisco di gran lunga quella di sangue maschile.
Non ho grande simpatia per le tre sorelle, ma neppure per re Lear. Questa tragedia — la principale - è tutta in eccesso. E' eccessivo tutto; la regalità, la sofferenza, la pazzia, l'uragano, l'odio. L'eccesso comincia subito, nel momento in cui Lear chiede alle figlie di dirgli quanto esse lo amino. Non c'è amore che basti. Ma è eccessiva anche la malvagità, anche l'odio. Tutto è nero, buio e perverso («innaturale» è una delle grandi parole del King Lear) fino ai limiti dell'intollerabilità (fino alla noia, diceva Thackeray).
Un gruppo di attori si deve essere riunito un giorno intorno a Shakespeare e gli deve avere detto; il mondo è Sofferenza? Ingiustizia? Violenza? Tenebra? Pazzia? Odio? Lussuria? E allora, che cosa aspettiamo? Facciamo scoppiare un uragano e parliamo di questo. Nel King Lear non si fa altro. Johnson rimproverava a Shakespeare tutto questo nero, non ammetteva che una tragedia potesse essere scritta «without any moral purpose», e non sopportava che Cordelia morisse. Si sentiva shocked da quella morte. Voleva il lieto fine, come nelle vecchie cronache. «Shakespeare has suffered that virtue of Cordella to perish in a juste cause». Era sbigottito da uno spettacolo dove «the wicked prosper, and the virtuos miscarry».
Un sentimento largamente condiviso da tutti i suoi compatrioti. Tanto che gli inglesi, per quasi due secoli, hanno sempre visto il King Lear rifatto da Nahum Tate dove la loro eroina nazionale scampava alla forca. E quando si è ritornati a Shakespeare, tutti si sono trovati d'accordo nel far morire Lear non di dolore ma di gioia, perché forse Cordella è viva e le sue labbra si muovono. «Do you see this? Look on ber! Look ber lips!». Come andrà letta questa battuta? «Look there! Look there!». Mah! Le battute, come i semafori a Napoli, sono solo consigli. Tutto dipende da come gli attori le pronunciano.

Il disgusto di Gide
Nel 1946, Andre Gide uscì disgustato da un King Lear di Laurence Olivier. Disse che neppure Victor Hugo sarebbe stato capace di riversare su lettori e spettatori un prodotto di gigantismo più falso. La mia grande speranza è che De Francovich ci liberi finalmente da questo Re Lear «titanico». Nella sua versione più costituita, re Lear è un personaggio che non mi piace.
Mi sembra un personaggio di morale quasi ibseniana. Uno di quei padri di famiglia che si sono fatti tutti da sé, che si sentono sempre al centro del mondo, una di quelle forze della natura perfettamente cieche e incoscienti che gridano al tradimento se solo qualcuno non ubbidisce. Re Lear mi piace solo quando si risveglia dalla pazzia, o quando chiacchiera con Edgar scambiandolo per un filosofo ateniese. Ma non sopporto la sua «anima universale» (Dryden). Non mi piace la sua isteria, il suo istrionismo, il suo esibizionismo, il suo infantilismo. Non mi piace la sua vecchiaia. Non mi piace la sua corona. Quando lo sento recitare «crack your cheeks!», rivolto al cielo e ai venti, e «singe my white head!», contro tuoni e fulmini, vengo preso da una grande insofferenza. Tra l'altro, tradurre tutto quel rimbombo, quella sfida agli elementi senza troppi monosillabi a disposizione è stato un tormento.
E sono grato a Ronconi di avere non solo smorzato quei toni; ma anche, sensibilissimo alla razionalità delle sorellacce, di avere dato un certo equilibrio agli alterchi tra padre e figlie (non sono delle streghe, lo diventano col tempo, con l'evolversi della storia).
Altrimenti, dovremmo pensare che solo un genio come Shakespeare poteva antivedere in re Lear, con un anticipo di tre secoli, tutta la gestualità insolente dei grandi attori dell'Ottocento, prefigurandola con tanta precisione.
Ma infine, c'è Edgar. Quando arriva Edgar, la tragedia di re Lear cambia misteriosamente di segno, diventa un'altra. Non è certo un caso che Lear e Edgar, e le loro pazzie, s'incontrino a metà strada, proprio a metà della tragedia.
Quasi più di Ariel, Edar è un personaggio magico e inafferrabile. E' un personaggio che non parla con nessuno, non divide il teatro con nessun altro. E' un personaggio senza finzione.
Edgar ci insegna a «decrearci», direbbe Simone Weil, a ridurre la nostra persona a zero. Si limita a monologare e a confidare le sue paure agli spettatori. E un angelo, un San Giovannino, un giovane Battista ispido, arruffato, nudo come un verme.

Un Edipo barbarico
Ma solo un verme fatato potrebbe scavare una traccia sotterranea dentro la tragedia per farla rinascere inaspettatamente nuova e più fresca di un fiore. La pazzia simulata e assatanata di Edgar riempie di significati innumerevoli la follia tanto più ovvia dei suoi interlocutori: quella professionale del Pool, e quella isterica del vecchio tiranno spodestato.
Più che un'allegoria cristiana, Re Lear si mostra finalmente nella sua nudità, ma anche nella sua tenebra. Una tragedia medievale, una lotta col demonio, una fiaba crudelmente istoriata e figurata con idre, mostri, diavoli da capricciosa fantasia gotica. E non
solo una fiaba, ma anche un grottesco Edipo barbarico, dove il veggente è un giovane arcangelo e non il vecchio cieco di tradizione mitologica. Il pannello immaginario con cui Edgar descrive al padre la rupe di Dover, quel frammento di teatro divertito e dipinto, coi corvi e le cornacchie che sembrano insetti, e laggiù, sulla riva, i ciotoli vani e infiniti battuti dalle onde, è il più stupefacente, il più ironico, il più semplice, e insieme il più illusivo e barocco prodigio teatrale di tutti i tempi.
Non meno fantastico del suicidio di un vecchio padre malandato e cieco che si getta a pancia in giù sopra un prato, convinto di slanciarsi dalla più alta rupe di Dover.

La pietà e l'ironia
Al momento del salto, il figlio si allontana di qualche metro e vede il padre cadere. «Non so se immaginare di morire può rubarci il tesoro della vita», è il commento di Edgar - bel modo capzioso e arzigogolato di esprimere un trepidante sospetto: ma che sia morto, niente niente? Può la dolcezza della pietà farsi più vicina alla forza imperiosa, irrinunciabile dell'ironia?
La tragedia di re Lear finisce con la vittoria del Male, come è giusto (con buona pace di Samuel Johnson) perché è fin troppo noto che il mondo è il regno di Satana, e il cielo regna altrove. Ma Edgar arriva in tempo per lasciarci negli occhi una di quelle immagini che il teatro, senza averne l'aria, non fa che rubare alle arti figurative: l'arcangelo Michele in atto di scagliare la lancia, e il mostro ai suoi piedi.
O, per noi italiani, l'immaginetta che abbiamo sempre davanti, San Giorgio e il Drago. Una brezza di laguna, da una città così cara a Shakespeare, spiffera perfino in una fiaba nordica come il Re Lear.


“il manifesto”, 5 febbraio 1995

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