27.6.14

Le parate del presidente (R.M. - micropolis giugno 2014)

Il pezzo che segue, autore Roberto Monicchia, è stato pubblicato nella rubrica “La battaglia delle idee”. Mi pare che rappresenti un eccellente contributo alla critica tanto del trasformismo politico quanto delle confusioni e contorsioni storico-ideologiche che ad esso si connettono. (S.L.L.)
Non si può dire che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano abbia lesinato l’impegno di rappresentante dell’unità nazionale. Anzi, giunto al secondo anno del suo secondo mandato - il nono complessivo – pare interpretare il ruolo in maniera creativa, con una forte impronta personale. Da quando si è insediato il governo Renzi e le riforme istituzionali si sono in qualche modo impostate, il ruolo politico “emergenziale” svolto da Napolitano a partire dalla caduta di Berlusconi nel novembre 2011 appare meno necessario. Certamente il Presidente vigila ancora su un percorso tutt’altro che scontato, né del resto sembrano imminenti le dimissioni che avrebbero sancito il suo completamento, ma tutto sommato pare che il Quirinale si possa dedicare a questioni almeno apparentemente di minore stretta attualità. Lo si è potuto notare nell’estrema cura con cui si sono organizzate le manifestazioni ufficiali per il 25 aprile e per il 2 giugno.
Nonostante la ritualità delle occasioni, Napolitano è riuscito a dare in entrambi i casi una forte impronta personale. In tutti e due i momenti il tema centrale è stata l’orgogliosa rivendicazione dell’importanza dell’esercito e della difesa armata. Il 25 aprile il Presidente è partito dalla constatazione che la Resistenza “fu una mobilitazione armata” perché “non c’era spazio per un’aspirazione inerme alla pace; l’alternativa era tra un’equivoca passività e una scelta combattente”. Da questa ineccepibile tesi Napolitano trae conseguenze sui doveri di oggi: “Non possiamo sottovalutare la necessità di essere in grado di dare un concreto apporto, dove sia necessario – come già lo è stato in diversi teatri di crisi – sul piano militare”. Il sillogismo è fallace tanto per eccesso di generalizzazione quanto per difetto di contestualizzazione. Da una parte non si capisce cosa abbiano in comune la guerra di liberazione e l’intervento militare all’estero e d’altra parte si sorvola sul fatto che la Resistenza nasce e si sviluppa come reazione al disastro della guerra voluta da Mussolini e dal Re. Trascurando questa frattura, il Presidente spinge il discorso quasi all’opposto del punto di partenza: “Dobbiamo procedere nella piena, consapevole valorizzazione delle Forze Armate [...]. Potremo così soddisfare esigenze di rigore e di crescente produttività nella spesa per la Difesa, senza indulgere a decisioni sommarie che possono riflettere incomprensioni di fondo e perfino anacronistiche diffidenze verso lo strumento militare, vecchie e nuove pulsioni antimilitariste”.
Tutto hanno visto in queste parole l’invito al Parlamento a confermare l’acquisto degli F35. Pochi, al contrario, hanno commentato la durissima repulsa delle “pulsioni” antimilitariste. Ma la Resistenza fu una guerra per bande non solo per le condizioni in cui i partigiani si trovarono ad operare, ma anche per la scelta di un’alternativa politica e morale al fascismo. In questo senso essa fu profondamente (e giustamente) antimilitarista. Anche da quelle “anacronistiche diffidenze” nasce l’art. 11 della Costituzione con cui l’Italia “ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”. Insomma, il passaggio dalla necessità della resistenza armata all’esaltazione aprioristica degli apparati militari rischia di portare a un patriottismo indistinto, lo stesso dei nemici della Resistenza. E’ coerente con questa impostazione (molto meno con i valori del 25 aprile) l’omaggio finale ai marò Girone e La Torre, i quali “rendono onore alla patria e sono ingiustamente trattenuti”.
Stesso tenore nelle dichiarazioni del 2 giugno, festa della Repubblica trasformata da tempo in una festa della forze armate, nonostante quel giorno si sia tenuto un referendum e non una battaglia. Napolitano non solo difende la parata militare, ma vi riporta, dopo un anno di “sobrietà”, anche le Frecce tricolori. Nel 68mo anniversario della Repubblica e a cent’anni dallo scoppio della Prima guerra mondiale, - dice il messaggio del presidente - ho rinnovato con particolare commozione il mio omaggio al sacello dell’ignoto soldato caduto, con tantissimi altri, in quell’immane tragedia che ha segnato indelebilmente la storia del nostro paese e dell’Europa.” Anche qui ritroviamo l’indebita continuità tra avvenimenti storici molto diversi, nonché l’oblio riservato, ad esempio, alle “pulsioni militariste” che furono tra le cause della “immane tragedia”. Confondendo tutto nel calderone del patriottismo non si fa un buon servizio alla verità e nemmeno alla patria.

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