18.6.14

Microcredito in India. C'è chi lucra sulla miseria (Cédric Gouverneur)

Il cosiddetto “microcredito” qualche anno fa era presentato come una sorta di panacea per il mali della miseria e del sottosviluppo: avrebbe trasformato ognuno in imprenditore di se stesso e rafforzato i vincoli comunitari attraverso la solidarietà di quartiere o di villaggio. L'esempio indiano sembra dimostrare che così non è. Il microcredito si è rivelato un affare solo per i settori della finanza che hanno investito nel settore (la cosiddetta “microfinanza”). L'articolo qui postato, di un paio di anni fa, lo mostra con grande evidenza. Parla di una solidarietà e di una lotta di massa appena iniziata per emanciparsi dal debito, soprattutto da parte delle donne: mi risulta che sia ancora in corso con alterni risultati. (S.L.L.)
VINITA JHA - Il lavoro delle donne nel villaggio di Rajnagar
Laksmi e sua moglie non ne potevano più di confezionare, giorno dopo giorno, un buon migliaio di beedies (sigarette aromatiche), ossia dodici ore di lavoro, per sperare di guadagnare 70 rupie (1,10 euro). Questa coppia con due figli ha dunque chiesto in prestito 5.000 rupie (78 euro) a un organismo di microcredito, con lo scopo di aprire una minuscola bottega di betel nel sobborgo di Warangal (stato dell’Andhra Pradesh), nel sud del paese.
Quello doveva permettere loro di vivere meglio, previo rimborso di 130 rupie a settimana. Ma, racconta Rama, Laksmi si è ammalato: «Per quattro mesi non ha potuto lavorare». Le rate si accumulano, e con loro gli interessi. I vicini cominciano a diventare aggressivi, perché le società di microcredito hanno messo a punto un sistema di corresponsabilità: quando un debitore fa default, gli altri devono rimborsare. Vessata, terrorizzata, la coppia sottoscrive un secondo prestito per rimborsare il primo. Poi un terzo per pagare il secondo…Un totale di cinque prestiti, per un totale di circa 1.000 euro. I creditori hanno finito per accamparsi letteralmente davanti alla catapecchia di Laksmi e Rama. Poi hanno – in tutta illegalità – pignorato la bottega di betel, la cucina a gas, i gioielli d’oro, e infine la macchina da cucire con la quale una delle due figlie della coppia, Eega, 20 anni, tagliava degli abiti per rivenderli. «Sei carina, prostituisciti!», le hanno urlato contro i creditori quando lei ha chiesto loro come la sua famiglia avrebbe potuto mangiare. Umiliata, la ragazza si è immolata dandosi fuoco il 28 settembre 2010.
«I poveri hanno accesso a un credito facile, alla loro portata – riassume Reddy Subrahmanyam, a capo del ministero dello sviluppo rurale dello stato. Ma a quale prezzo! Con gli aggravi, i tassi d’interesse sfiorano il 60%». Nello spirito del suo inventore, il bengalese Muhammad Yunus, Premio nobel per la pace, il microcredito doveva permettere l’acquisizione di una nuova fonte di reddito, e non fungere da supplemento. Una sfumatura fondamentale, dato che il microcredito indiano si imparenta ormai con i prestiti al consumo: «I più poveri sottoscrivono crediti per pagare delle spese mediche, una dote, un matrimonio, perfino una televisione o un pellegrinaggio – tuona Subrahmanyam. Il microcredito doveva emancipare (empower) i più indifesi, rendere loro la dignità. Ormai li fa sprofondare nella miseria». E, al posto di creare solidarietà, la corresponsabilità dei beneficiari di un prestito fa implodere le comunità dei villaggi.
L’Andhra Pradesh concentra un quarto del microcredito privato del paese, cioè 52 miliardi di rupie (818 milioni di euro) prestati a 6,5 milioni di famiglie nel 2010. «Durante gli anni 2000 – riferisce Abhay N., editore del giornale online “India Microfinance” – il governo regionale ha lanciato numerosi programmi sociali per opporsi all’influenza dei maoisti», la cui guerriglia è attiva nella zona rurale. Lo stato ha indotto le banche a prestare agli abitanti dei villaggi riuniti in gruppi di mutua assistenza (self-help groups, o Shg), prendendo esso stesso in carico una parte degli interessi. Nel villaggio di Dharmasagaram, nel distretto di Warangal, una madre di famiglia, Bhergya, racconta come ha potuto, tramite l’Shg, chiedere in prestito poco più di 1.000 euro alla banca, a un tasso del 12% (di cui il 9% preso in carico dallo stato) per acquistare il rickshaw che ha poi affittato a suo fratello: «L’affitto del rickshaw mi rende 6.000 rupie (94 euro) netti al mese; ne devo rimborsare 2700», dice soddisfatta. Ma alcune società private hanno utilizzato questa rete per sondare l’opinione degli abitanti dei villaggi e vendere loro dei crediti al consumo sul modello europeo.
Questa deviazione si spiega con l’evoluzione della maggioranza dei sessantasei organismi di microcredito indiano, ormai guidati da una sola logica, quella del profitto. Numero uno del settore, Sks è stato fondato nel 1998 da Vikram Akula, un lavoratore dei servizi sociali laureato all’università di Chicago. Sks era all’inizio un’organizzazione senza scopo di lucro. «Questo statuto giuridico le impediva di prestare denaro sufficiente – giustifica un portavoce della società dalla sua sede sociale, a Hyderabad. Akula ha quindi deciso nel 2005 di farla evolvere in compagnia finanziaria non bancaria.» Secondo il diritto indiano, una siffatta società presta denaro ma non può detenere depositi. Nell’agosto 2010, Akula ha fatto quotare la sua impresa in Borsa. Le azioni sono volate fino a 1.400 rupie, per il maggior profitto dei dirigenti. Una recente ordinanza dell’Andhra Pradesh (Partito del Congress), vieta agli esattori di recarsi nel domicilio dei loro debitori e condiziona la sottoscrizione di nuovi prestiti all’avallo delle autorità. Misure giudicate insufficienti dall’opposizione: il Telugu Desam Party (Tdp), al potere nell’Andhra Pradesh tra il 1999 e il 2004, invita i milioni di debitori a smettere di pagare.
In un sobborgo di Hyderabad incontriamo la signora Kaushalya e le sue vicine. Questa nonna energica ha preso in prestito del denaro per prendersi cura del marito emiplegico. Incapace di rimborsare, avrebbe dovuto essere vessata dalle altre debitrici del quartiere, a cui era stato intimato di pagare al suo posto. Ma queste donne hanno deciso di fare fronte comune e non pagare più niente: «Da novembre 2010 non abbiamo versato più niente – dicono, allo stesso tempo fiere e serie nei loro sari. Le persone della società di credito ci minacciano, ci dicono che andremo in prigione, ma non succede niente, e noi non prestiamo loro più attenzione!». Esempi del genere di solidarietà di villaggio si moltiplicano per tutto lo stato. E i tassi di rimborso crollano, passando dal 97% al 20%, perfino 10%... Infine, «sono in corso delle inchieste su una cinquantina di suicidi. I responsabili delle vessazioni dovranno rispondere dei loro atti davanti ai tribunali», promette Subrahmanyam. Sentendo girare il vento, trentanove dirigenti di Sks hanno liquidato le loro stock-option, dall’inizio della crisi, alla fine del 2010. E Akula ha dovuto dare le dimissioni, il 23 novembre 2011. Secondo le nostre informazioni le società di microcredito vendono ormai solo nei villaggi remoti degli indigeni adivasi: isolati, sventurati, analfabeti, questi sono meno in grado di diffidare…La microfinanza indiana potrebbe fare sua la battuta di spirito dell’umorista Alphonse Allais (1854-1905): «Bisogna prendere i soldi là dove si trovano: dai poveri. Non ne hanno molti, ma sono così numerosi…»


“le monde diplomatique” ed. italiana, aprile 2012

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