18.6.14

Pasolinismo di massa (Biancamaria Frabotta)

L'articolo risale a quasi un decennio fa (novembre 2005), al tempo del trentennale pasoliniano, ma quella tendenza che allora si verificò in maniera eclatante continua a percorrere l'Italia acculturata, sicché le cautele di Frabotta, al di là delle singole affermazioni talora discutibili, mi sembrano tuttora attuali. (S.L.L.)

Io credo che ciò che sta accadendo intorno al nome di Pier Paolo Pasolini in occasione del trentennale della sua morte, meriti una riflessione. Enzo Siciliano su “la Repubblica” del 2 novembre scrive che l'enfasi mediatica che ingigantisce questo evento, rischia di travolgere la sostanza vera della presenza di Pasolini nella nostra cultura. Ha senza dubbio ragione. Il giorno prima, a Roma, in un Teatro Argentina gremito fino all'inverosimile aveva detto qualcosa di simile. Pasolini anche per lui costituisce ormai un mistero. Non si riferisce alla morte del suo amico, ancora oggi ammantata di bugie e reticenze. Ma alla sua vita, al senso vero della sua opera.
Cosa rappresenta Pasolini nel mondo di oggi, nell'Italia di oggi, fra i giovani che - posso testimoniarlo almeno come docente - leggono da più di venti anni quasi solo le sue poesie, fra i tanti ottimi poeti del nostro Novecento? Che relazione c'è fra questo ormai incipiente culto, di origine certamente non solo televisiva, e il complesso messaggio pasoliniano che, più di altri, richiederebbe una glossa incessante, una puntigliosa esposizione di pro e di contro, una continua discussione, e proprio per non inciampare nelle trappole delle sue acutissime metafore, dei suoi micidiali, stupendi, quanto pericolosi paradossi?
Molti sono stati chiamati in questi giorni ad assolvere a questo compito. A portarne, come si dice, il peso della testimonianza. Ma chi può oggi testimoniare sul senso vero di questo diffuso, inedito pasolinismo di massa, impensabile nei giorni del ventennale o del decennale della sua morte?
È come se il "problema Pasolini", il valore della sua poesia, la sua fame di realtà, il suo volto, la sua protesta, le sue denunce, la sua morte violenta, si fossero ormai scollati dai ricordi di chi lo conobbe, dal sapere di chi ne ha raccontato le vicende, dalla perizia di chi ha raccolto e studiato le ventimila pagine delle sue opere, o restaurato i suoi film, o vagliato, cercando di smascherarle, le ricostruzioni "ufficiali" del suo assassinio.
Giustamente Siciliano esorta a leggerne i libri e a non banalizzarne il pensiero, riducendolo a logo, a santino e se rievocando l'ultimo loro incontro a stento riesce a frenare la commozione, forse è anche per via del timore di perdere per sempre nel replicarsi della copia, la memoria dell'originale e dunque la consolazione del congedo. Ma è come se un altro mistero si stesse compiendo nel corso di questo sminuzzamento, di questa polverizzazione delle parole e delle immagini pasoliniane in centinaia di manifestazioni pubbliche, letture, messe in scena, brutte o belle che siano, approssimative o specializzate, doc o un po' bastarde, ma sicuramente sparse su tutto il territorio nazionale e tutte premiate da una partecipazione attenta, silenziosa, per non perdere il barlume di verità che può emergere ai margini, magari, di questo vortice celebrativo. O del suo consueto controcanto di insulti, o sarcasmi.
Certo è che sulle facce della gente che concorre e corre a questi riti (tutt'altro che ritualistici) pare di scorgere una voglia strana, non fanatica, non volgare, anzi discreta, pudica, mai retorica: poter disporre di una verità, inutile, magari, come quella giudiziaria trent'anni dopo gli avvenimenti, o quella della poesia appunto, inutile per definizione. Penso, guardando questi volti, all'impalpabile verità dei volti anonimi cui alludeva Lévy, discutendo del pensiero di Pasolini e della sua aspirazione a rappresentare l'irrapresentabile. Vi sta fissato un desiderio di chiarezza, almeno su un punto, un punto solo, magari, ma netto, limpido, spogliato di ogni menzogna. E in questi occhi attenti mi pare che i sinistri bagliori di Salò o di Petrolio, o della Nuova gioventù, insomma i paradigmi della tetra profezia dell'ultimo Pasolini, con una bizzarra e imprevista metamorfosi, si vadano in questa occasione riaccendendo in guizzi piuttosto di "disperata vitalità".
Forse nessuno saprà più raccontare cos'è stato il vero Pasolini. Ad ognuno ne spetterà magari poco più di un pezzetto. Ma del resto cosa ne sarebbe stato di Orfeo, se non fosse stato fatto a brani dalle Baccanti? Egli aveva soltanto la lira, racconta il mito, con la quale inutilmente cercò di difendersi, mentre cadeva a terra e le sue membra venivano sparse in tutte le direzioni.


Novembre 2005 per il premio Pasolini, poi in “Fili d'aquilone”, rivista on line, n.1 gennaio-marzo 2006.

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