23.6.14

“Taci o donna”. La condizione femminile nel mondo antico (Lidia Storoni)

Maria Callas interpreta Medea
Secondo Aristotele, c' è chi "per natura comanda" - l' uomo - e chi "per natura obbedisce" - la donna e lo schiavo. Il primo, dotato di ragione, è cittadino di pieno diritto, autore di norme, garante dell'ordine. Gli altri due, congenitamente intemperanti, incapaci, vanno tenuti sotto tutela e svolgono funzioni puramente materiali: la riproduzione la donna, il lavoro manuale lo schiavo.
Nel mondo antico la donna ha un valore strumentale in rapporto alla famiglia e alla comunità; e da questa concezione basilare derivano i connotati morali che ne delineano l' immagine, non già quale la donna è, ma quale l' uomo vuole che sia. E' facile riconoscere questo identikit ufficiale in quei documenti spesso anonimi - i più rivelatori della scala di valori d'una società - che sono le iscrizioni funerarie. L'elogio che riassume nel marmo l'esistenza d'una donna ne sottolinea le caratteristiche esemplari: la castità (essa fu "pudica" e "univira", cioè d'un uomo solo), la parsimonia (essa fu "custos" e "conservatrix" del patrimonio), il riserbo ("domi mansit", non usciva mai di casa), l'assiduità al lavoro che solo le si addice, filare e tessere ("lanam fecit"): canoni antichissimi, radicati nel subconscio collettivo, ribaditi negli epitalami anche quando quelle virtù non erano più praticate da nessuno. La donna era un "ricettacolo inerte, elemento statico di conservazione": così la definiva Silvia Campese in Madre Materia (Boringhieri, 1983); "frazione passiva e anonima d' un gruppo" secondo Moses J. Finley (The Silent Woman of Rome, 1968). Come tale, non deve farsi notare, distinguersi in alcun modo: "Fulvia sapeva cantare e danzare", scrive Sallustio d' una signora del demimonde che gravitava attorno a Catilina, "più che non convenga a una donna perbene".
Fu Romolo, dicono, a vietare alla donna di bere vino, pena la morte, perchè ritenuto un farmaco per abortire o afrodisiaco; ed erano sconsigliati anche i profumi: "odora bene la donna che non ha odore", scrive Marziale. In I giardini di Adone (Einaudi 1975) e La pantera profumata (Laterza 1980) Marcel Detienne nota che il profumo è inseparabile dal peccato: Mirra, che commise incesto con il padre e Menta, la concubina di Ade, vengono trasformate in erbe odorose; la pantera, abile simulatrice (“la fera a la gaietta pelle”, dirà Dante) è simbolo di lussuria: cattura le prede emanando un profumo che le attira. A volte, la donna nasconde sotto la sua grazia avidità, sventatezza, disobbedienza: i difetti che Esiodo condensa in Pandora. Il sospetto, il malanimo si manifestano nelle misure di rigore che la legge e la famiglia applicano nei suoi riguardi: perchè della donna non c'è da fidarsi. Con questo essere privo di diritti, a che servirebbe parlare? Se una donna esprime un'opinione, sa di commettere un'infrazione alla consuetudine e se ne scusa: "so bene che il maggior pregio d'una donna è starsene chiusa in casa, in silenzio", fa dire Euripide alla figlia di Eracle; e Andromaca, quando rievoca la sua esistenza di sposa di Ettore, "stavo sempre in casa, non ricevevo femmine ciarliere; restavo in silenzio"; e infine la sposa di Aiace, che dice d' aver cercato invano di far tornare alla ragione l' eroe impazzito, "lui mi rispondeva brevi parole, sempre le stesse"; la dignità della donna "è il silenzio".
I romani hanno gli stessi princìpi e gli stessi pregiudizi dei greci. Della femminilità silenziosa hanno fatto la dea tutelare di Roma, Angerona, che è imbavagliata, e un'altra che si festeggiava il 21 febbraio, Tacita Muta. Eva Cantarella, che ha già scritto uno studio, L' ambiguo malanno, sulla "Condizione e immagine della donna nell' antichità greca e romana" (Editori Riuniti, 1981) ha intitolato con il nome di questa divinità un brevissimo saggio - 59 pagine - ora pubblicato dalla stessa casa editrice (Tacita Muta). La dèa era stata ridotta al silenzio da Giove, che le aveva strappato la lingua quando era una garrula ninfa, per un pettegolezzo. Si chiamava Lara; e, in seguito allo stupro subìto da Mercurio, partorì due gemelli, i Lari, divinità intime e segrete, custodi del focolare domestico. A questa dèa emblematica della condizione femminile si contrappone il dio maschile Aius Locutius, il dio parlante. E infatti quale pregio possedeva l'uomo romano paragonabile alla forza virile - "Virtus" - se non la parola, che faceva di lui l'oratore, il retore, il capo-popolo, il legislatore? Persino gli imperatori vengono ritratti nell'atto di rivolgere parole d'incoraggiamento ai legionari (l'adlocutio) più spesso che con la spada in pugno. Nel suo rapido saggio, Eva Cantarella indaga la condizione della "donna-oggetto" nel momento ancora nebuloso tra la società arcaica, pre-romana, e la fondazione di Roma. Rintracciando leggende, culti, leggi, Cantarella ricostruisce la storia della donna, che è la storia d' un lungo silenzio. L'autrice nega che vi sia stato un periodo di matriarcato o di trasmissione matrilineare del potere, come dimostrerebbero alcune leggende: ad esempio quella di Tanaquilla, la moglie di Tarquinio Prisco che, valendosi del proprio prestigio, astutamente tenne nascosta la morte del marito per mettere sul trono Servio Tullio; né più né meno di Livia, che attese il ritorno di Tiberio prima di comunicare il decesso di Augusto; e lo stesso fece Plotina quando morì Traiano, per assicurare lo scettro a Adriano. Se Latino fece re il profugo troiano, Enea, concedendogli la mano della figlia Lavinia, fu perché non aveva figli maschi; e i Proci, che corteggiavano Penelope, non potevano prescindere dal figlio Telemaco: era lui l'erede legittimo di Ulisse.
Le donne etrusche, che negli affreschi delle tombe vediamo partecipare ai banchetti adorne di gioielli, non avevano potere politico; e le leggende riguardanti le eroine guerriere, come Clelia e Camilla, sono forse la trasposizione mitica di riti di iniziazione o di purificazione. L'Amazzone è un'immagine contronatura. Sta di fatto che quegli stessi autori di leggi repressive ispirate a un maschilismo oltraggioso, sia greci che romani, inesplicabilmente ci hanno trasmesso figure di donne esemplari e non solo per l'esercizio paziente delle virtù prescritte dalla consuetudine: le "pacifiste", come le sabine rapite e poi mediatrici tra i mariti e i parenti offesi; la sorella di Orazio, che piange nel riconoscere il fidanzato Curiazio ucciso dal fratello; la madre di Coriolano, che dissuade il figlio dal muovere in armi contro la patria; Cornelia madre dei Gracchi, fiera dei figli caduti in difesa del popolo; e poi le virtuose fino alla morte, Virginia e la casta Lucrezia sposa di Collatino, che rifiuta di sopravvivere alla violenza subita. Non parliamo delle eroine delle tragedie greche: in quel V secolo a. C. in cui regnava il regime del gineceo e ai mariti era concessa la concubina, l'etèra e magari anche l'efebo, i tragici inventano le figure più intense della letteratura di tutti i tempi, e sono donne: le vendicative passionali, come Medea e Clitemnestra, le innamorate fino all'estremo sacrificio, come Alcesti, le patriote, come Ifigenia, che accetta volentieri d'esser sacrificata sull'ara purché la vittoria arrida agli Achei contro i "barbari" troiani; e infine la dolente ed eroica Antigone, che per fedeltà alla sua legge morale va incontro alla condanna prevista dalla legge scritta. Il mito ha fornito alla tragedia i personaggi e i temi delle trame; ma il mito, come ha osservato Jean-Pierre Vernant, è caduto sotto il controllo politico. Il coro esprime i nuovi valori che la pòlis elabora e li confronta con quelli antichi. Né gli storicisti né gli strutturalisti ci hanno spiegato il contrasto esistente fra la donna ateniese e quella dei tragici. Forse, questi registravano inconsapevolmente un processo lentissimo di trasformazione; oppure nel loro subconscio serpeggiava la constatazione inespressa che le donne valevano più di loro.


“la Repubblica”, 6 novembre 1985  

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