8.6.14

Walter Benjamin. Una vita mutilata (Carlo Saletti)

La finta tomba di Benjamin nel cimitero di Port Bou
Nel 2010 “alias” pubblicò come anteprima l'Introduzione di Carlo Saletti a Fine terra. Benjamin a Portbou, un volume collettaneo sugli ultimi giorni di vita e sui misteri della morte di Walter Benjamin edito Ombre Corte/Documenta. La riprendo qui perché mi pare documentare ottimamente il momento cruciale della tragedia del Novecento europeo. (S.L.L.)
Walter Benjamin nell'estate 1938
Osservando le fotografie di Wallter Benjamin negli ultimi anni della sua vita – quella dell'estate 1938, ad esempio: in maniche di una camicia bianco candido, i pantaloni scuri alti in vita, la cravatta, l'arco della catena dell'orologio a cipolla sul fianco destro, la figura intera con le mani ancora in tasca – ciò che colpisce e quello che colpì l'amico di una vita Gershom Scholem quando, incontrandolo a Parigi alla fine del febbraio di quello stesso anno, lo descrisse come noi lo percepiamo oggi: «Erano undici anni che non lo vedevo, e il suo aspetto esteriore era alquanto mutato. Si era appesantito, aveva qualcosa di più trasandato nel contegno, portava baffi molto più folti. I suoi capelli si erano notevolmente ingrigiti». All'epoca in cui l'istantanea fu scattata, Benjamin era ospite di Bertolt Brecht nell'abitazione danese di Svendborg e, ma solo noi lo sappiamo, aveva soltanto due estati davanti.
L'intellettuale, che per la profondità del proprio pensiero aveva suscitato l'ammirazione dei contemporanei, continuava a vivere da freelance, senza un reddito sicuro, trascorrendo la buona stagione tra San Remo, dove la ex moglie Dora gestiva una pensione, e la Danimarca. Il solo sostegno economico su cui poteva contare gli veniva dall'Istituto per la ricerca sociale, diretto da Max Horkheimer, trasferitosi nel frattempo a NewYork. Il suo esilio era iniziato nel marzo del 1933. Via da Berlino e dalla Germania, aveva scelto Parigi come città che lo avrebbe adottato, anche se era ancora in attesa di naturalizzazione. E ben presto, privato della cittadinanza tedesca, sarebbe piombato nella condizione dell'apolide.
Nato il 15 luglio 1892, il geniale quarantaseienne era, in quella estate del 1938, un uomo pingue. Ora, c'è un'idea che ha espresso Stefan Zweig, il letterato austriaco che un tempo era stato amico e collaboratore di Richard Strauss. Zweig, per spiegare cosa fosse il mondo europeo che lo aveva preceduto e che la grande guerra si era portato via, aveva fatto ricorso alla fisicità dei padri:
Se io tento di rievocare nella loro precisa immagine le figure degli adulti che circondarono la mia infanzia, constato con stupore che moltissimi fra di essi erano precocemente corpulenti. Mio padre, gli zii, i maestri, i commessi dei negozi, i suonatori d'orchestra, tutti a quarant'anni erano uomini già piuttosto pingui e dignitosi. Camminavano lenti, parlavano pacati e discutendo si accarezzavano le barbe ben curate e spesso già volte al grigio. I capelli grigi del resto erano un segno di dignità ed un uomo posato evitava di proposito, come sconvenienti, i gesti e la baldanza della gioventù.
Lo aveva chiamato die Welt von Gestern, il mondo di ieri, e Benjamin corrispondeva perfettamente alla descrizione che Zweig dava di chi lo aveva preceduto. Pur essendo uno dei più lucidi critici della propria contemporaneità - certo, era molteplice, sociologo dei media, filologo erudito, critico d'arte e di teatro, traduttore, filosofo della storia, analista letterario, cacciatore di preziose pietre imprigionate tra gli scaffali delle biblioteche che, opportunamente lucidate, prendevano splendore sotto forma di citazione, cartografo della memoria e sottile esploratore del paesaggio urbano, collezionista di edizioni per l'infanzia, ecc. -, Benjamin era legato, perlomeno per il fisico, al mondo di ieri. E, tuttavia, per lui la catastrofe doveva ancora venire.
Le cose incominciarono a precipitare (che significa: a non andare più come si erano presentate il giorno prima), quando la Germania decise che era giunta l'ora. Dapprima, della Polonia. Entrare il primo settembre 1939 in quel paese e, en passant, provocarne lo smembramento, dal momento che ad oriente l'Unione sovietica non aveva tardato a mettere le mani sulla sua parte del bottino, aveva obbligato la Francia, per gli effetti di un accordo transitivo sottoscritto con il paese invaso, a dichiarare guerra alla Germania, il 3 settembre. La qualcosa aveva prodotto uno smottamento, in forza del quale gli antinazisti che avevano trovato rifugio in territorio francese, le migliaia di tedeschi, d'austriaci, socialdemocratici, comunisti o ebrei che fossero, o entrambe le cose, furono definiti «stranieri indesiderabili» e, come tali, raccolti e internati nella vastissima rete dei campi di cui la Repubblica si era lestamente dotata. Benjamin non sfuggì alla regola e finì circondato dal filo spinato. Fu più fortunato di altri, poiché aveva amici che lo stimavano enormemente e uno di questi, la poetessa Adrienne Monnier, aveva una conoscenza influente presso il ministero degli Esteri - Henri Hoppenot, si chiamava - che l'aiutò e aiutandola diede una mano al pover'uomo. Qui, l'espressione dare una mano andrebbe intesa nel suo senso letterale, di tendere la mano verso qualcuno per trarlo a sé e toglierlo, in questa maniera, dal guaio in cui è finito. Si stava entrando nell'inverno e nei campi si sprofondava nel fango. «La mia liberazione è stata una delle prime a essere decisa», scrisse da Parigi all'amico Scholem, non appena poté riprendere l'abituale corrispondenza, il 25 novembre 1939, «ho avuto la fortuna di essere liberato nello stesso giorno in cui il tempo, laggiù, volgeva al freddo. Sono dimagrito, ma sto bene». Fisicamente, si stava riallineando al proprio tempo.
Poi, fu la volta dell'Olanda, del Belgio e della Francia. Tre paesi in un colpo, dal 10 maggio 1940. Il 14 giugno, le truppe del Reich erano già a Parigi. Dal fronte, la notizia riempì Hitler di una gioia immensa, debitamente ritratta dai camerieri al seguito. Come spesso accade per i sentimenti, si può coglierla in un frammento di movimento, colto in quei giorni da una macchina da presa: quel piccolo passo di marcia sul posto - quando il Fuhrer alza la gamba sinistra e con essa chiude come un compasso il braccio corrispondente, per poi scaricare la gioia a terra, battendo il piede - con cui lo vediamo commentare la notizia attorniato dai suoi generali.
Benjamin non vide i suoi connazionali di un tempo sciamare per le vie della capitale, se n'era andato uno, due giorni prima. Come non li vide un altro esule, Victor Serge, che pure era in città e che scrisse di quelle ore:
La fine di Parigi è la fine del mondo; si ha un bell'essere lucidi, come ammetterla? Domenica 9, vedo i ministeri sgomberare. Delle automobili coperte di materassi e sovraccariche di bagagli filano verso le porte del sud. Dei negozi si chiudono. La Parigi delle ultime sere è splendida. I suoi grandi boulevard deserti entrano nella notte con una nobiltà straordinaria. Una calma di potenza addormentata regna sulle piazze spente.
Il corso degli eventi militari si era disposto in modo tale che la profezia espressa quindici mesi prima da Scholem, «tutto il futuro diventa così sinistro e inquietante, che la fantasia si rifiuta di tenere dietro alla realtà (di domani e dopodomani)», si stava realizzando. Dal nord, gli esuli scendevano verso il sud della Francia, dichiarata dal trattato armistiziale «zona libera». Si produsse, dunque, uno spostamento di popolazione che, in epoca più recente, si avrebbe preso l'abitudine di chiamare una catastrofe umanitaria. Anche su quella parte d'Europa erano giunti tempi oscuri: «Ricevo lettere cui si dovrebbe rispondere con un pacco di veronal o di un altro veleno efficace, unico consiglio che si possa dare a quei disgraziati...», osservava Zweig dal suo luogo d'esilio. Cos'altro suggerire, a chi ancora sopravviveva intrappolato nell'Europa continentale, se non di procurarsi un veleno infallibile? Di ciò si era iniziato a discutere, apertamente, tra esuli. Quando, nella seconda metà del settembre 1940, Benjamin incontrò a Marsiglia Arthur Koestler, i due affrontarono l'argomento. Finì che si divisero equamente la dose che Benjamin aveva con sé. Solo qualche mese prima passavano le serate, in rue Dombaste a Parigi, giocando a poker - sì, era vero, in Spagna i franchisti non avevano ancora finito di sotterrare i rossi, c'era pur stata l'Austria, i tedeschi avevano cancellato la Cecoslovacchia dalla carta geografica, ma, insomma, il mondo stava ancora in piedi! - ed eccoli, ora, discutere come farmacisti della quantità necessaria...
A Marsiglia, Benjamin era arrivato dopo una sosta di circa due mesi a Lourdes, dove era riuscito a ritrovare la sorella Dora, affetta da una grave malattia, che non le aveva comunque evitato un certo periodo di internamento nel campo di Gurs, distante una sessantina di chilometri dalla città dei miracoli. A Benjamin occorrevano i documenti per poter abbandonare l'Europa - problema comune alle migliaia di individui messi al bando. La Francia, tradizionale terra d'asilo, aveva cessato di esserlo. Finalmente, agli inizi d'agosto gli era stato comunicato della disponibilità di un visto di entrata per gli Stati Uniti, da ritirarsi a Marsiglia.
La città era diventata, in quelle settimane, la capitale della fine di quel mondo. Era lì che si concentravano le speranze, perché era lì che si cercavano i permessi, presso una burocrazia investita del potere incondizionato di decidere sui casi umani - le vite degli altri. Bisognerebbe rifletterci: da una parte il fruscio di fogli, il tonfo secco di un timbro che cala su una fotografìa formato tessera, lo stridio del pennino sulla carta, dall'altro il cigolare delle porte e il tintinnare delle manette...
Era arrivato luglio, era arrivato agosto, il tempo trascorreva nell'attesa. E l'attesa era tempo prezioso che scivolava via, allontanando i fuggitivi dalla salvezza. «Il mio timore è che il tempo a nostra disposizione possa essere assai più limitato di quanto pensassimo», scriveva il 7 agosto.
Verso la fine di settembre, Benjamin aveva finalmente raccolto la maggior parte dei documenti necessari per toglierlo dai rischi a cui è esposto ogni clandestino. Gli mancava il permesso d'uscita dal territorio francese. A quel punto, non importava. Ripresa la fuga, scese in treno sino al confine spagnolo, ai piedi dei Pirenei, con l'idea di valicarli. Cosa che gli riuscì il giorno 25. Come in una storia dall'epilogo triste, una volta giunto in Spagna venne fermato e gli fu detto che sarebbe stato riconsegnato alle autorità francesi. Gli venne concesso di fermarsi per la notte e fu accompagnato in un albergo del primo paese al di là della frontiera, Portbou. Considerato ormai unanimemente un pensatore maggiore del novecento, Benjamin finì nell'inghiottitoio, come tanti altri nelle sue condizioni, quella notte stessa.
Il fascino che emana dal suo pensiero, in misura sempre maggiore; non è disgiunto dalla consapevolezza che vi è per quella fine. Per certi versi, Benjamin lo aveva intuito in un suo saggio del 1936, quando scriveva: «Un uomo che muore a trentacinque anni», - ha detto una volta Moritz Heimann, - «è in ogni punto della sua vita un uomo che muore a trentacinque anni». Nulla di più dubbio di questa affermazione. Ma questo solo perché si serve di un tempo inadatto. Un uomo - è la verità cui essa allude - che è morto a trentacinque anni, apparirà al ricordo inferiore, in ogni punto della sua vita, come un uomo che muore a trentacinque anni. In altri termini: l'affermazione, che non ha senso per la vita reale, diventa inoppugnabile per la vita ricordata.
Il suo drammatico decesso, per nulla accidentale e che sopraggiungeva a qualche ora da una morte sfiorata - l'attraversamento dei Pirenei, per lui afflitto da una grave cardiopatia, era stata una roulette russa -, rimase tuttavia avvolto in un alone di mistero, così come rimase sconosciuto il luogo ove il corpo era stato sepolto.
A partire dagli anni Ottanta, nuove testimonianze e la lettura di importanti documenti ritrovati a Portbou hanno permesso di approfondire la conoscenza sulle circostanze della morte e della successiva sepoltura. Tanto le testimonianze, quanto i documenti d'archivio rafforzavano,. in pari misura, ciascuna delle due versioni che circolavano sulla causa del decesso: suicidio o morte naturale. Il racconto di una misteriosa borsa di pelle nera che Benjamin avrebbe avuto con sé in quelle ore, e del manoscritto in essa contenuto, riaccese l'interesse attorno alla vicenda. Furono avviate ricerche per capire dove fosse finito, mentre iniziava ad emergere nel paese catalano la memoria di quel passaggio. La finta tomba, mostrata ai visitatori sin dagli anni Sessanta era stata smantellata e avrebbe lasciato il posto, di lì a qualche tempo, a un cenotafio in sua memoria. Una targa era stata apposta sul muro di cinta del cimitero comunale. Con l'avvicinarsi del centenario della nascita, fu avviato il progetto di un monumento-memoriale, affidato all'artista israeliano Dani Karavan, che destinava lo sperduto villaggio catalano a entrare nelle mete di quel turismo della memoria, che proprio in quegli anni andava affermandosi in Europa.
Ripercorrere l'intera vicenda e rispondere agli interrogativi che ne sono nati è il compito che si è dato questo libro: quando morì, precisamente, Walter Benjamin e in quali circostanze? Quale fu la causa del decesso? Perché fu sepolto, lui ebreo, nel settore cattolico del cimitero di Port-Bou? Cosa ne fu delle sue spogliemanoscritto che alcuni testimoni sostengono avesse con sé e cercasse, assieme alla sua vita, di mettere in salvo?
Per mettere ordine alle domande e alle risposte che sono state date, il libro ha raccolto alcuni contributi, in parte apparsi sul testo collettaneo Fur Walter Benjamin. Dokumente, Essays und ein Entwurf, con cui nel 1992 l'AsKI (Associazione tedesca degli istituti di cultura autonomi) di Bonn ne volle ricordare il centenario della nascita. Curato dagli storici tedeschi Ingrid e Konrad Scheurmann, che si ringraziano per averne autorizzato la traduzione e la pubblicazione, il libro costituisce uno dei più importanti contributi sull'argomento. In particolare, vengono presentate le interviste al Lisa Fitko, la passatrice che accompagnò Benjamin nel suo passaggio di frontiera, e a Dani Karavan, a cui si deve il progetto del monumento che in sua memoria è stato realizzato a Portbou (sulla spianata del cimitero dove, da qualche parte, sono finite le sue spoglie), e il lungo saggio che Ingrid Scheurmann ha dedicato all'analisi dei documenti della municipalità di Portbou ritrovati nei primi armi Novanta, la cui conoscenza ha apportato diversi chiarimenti su quanto avvenne tra il 26 e il 28 settembre 1940 in quella località. L'intervento conclusivo, redatto in forma di dizionario, vuole essere un invito a recarsi a Portbou e a sostare dinanzi a queflo che, oggi, è divenuto un luogo di memoria.
Il memorial Walter Benjamin a Port Bou
Gli anni francesi di Benjamin e l'epilogo della sua esistenza non sono che una tessera dei più vasto fenomeno dell'esilio europeo nel Novecento. La sua è stata una di quelle «vite mutilate» - secondo la definizione che ne ha dato l'amico Adorno - di cui è costellata la miseria morale in cui piombò il continente. L'esilio politico e di classe, l'esilio civile, l'esilio «razziale», l'esilio intellettuale si sono succeduti nel corso del secolo come altrettante varianti di un processo che portò alla negazione del diritto di cittadinanza per quote di popolazione considerate in eccesso. A ciò, in definitiva, riconducono le ore passate da Benjamin a Portbou. Lo splendido memoriale che Karavan realizzò nel 1994 è dedicato, oltre che al suo nome, a quello di tutti gli esiliati tra il 1933 e il 1945. Spesso, tuttavia, ciò che è stato vero per il passato, lo è anche per il presente. Non a caso, Enzo Traverso ha osservato, qualche anno fa, che «questo monumento ricorda anche le migliaia di sans-papiers che ogni anno muoiono cercando di raggiungere le coste spagnole, spesso in fuga da paesi africani devastati dalle guerre e dalla violenza, o i clandestini di cui si raccolgono i cadaveri sulle coste del sud dell'Italia, spesso in fuga da altre guerre, da altri fascismi».


Pubblicato in anteprima su “alias – il manifesto”, 25 settembre 2010

1 commento:

  1. Salve, questo documentario sugli ultimi giorni di Walter Benjamin può contribuire a ricostruire quei momenti che ho notato vengono un pò troppo velocemente considerati "certi" senza possibilità di ripensamenti: http://bit.ly/1r1Y22q

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