11.7.14

Dalla parte di Pippo (Roberto Roversi)

Il poeta e libraio bolognese sul popolare personaggio inventato da Walt Disney, in occasione del cinquantenario dalla sua prima apparizione nei fumetti. (S.L.L.)
Questa intrusione in un terreno che non tollera dilettantismo o improvvisazione può essere giustificata per una volta tanto sia dalla ricorrenza curiosa sia da un modesto ma convinto proposito di legare addosso a questa ricorrenza due o tre constatazioni personali dipendenti da una frequentazione giovanile perseguita poi con cauta perseveranza. Anche se mi rendo conto che questa ricorrenza e questa occasione possono (ma poi non lo sono) apparire frivole oppure di scarso interesse o anche soltanto «basse»; e che le mie parole sono abbastanza approssimate. Ma ho premesso di essere un dilettante, con qualche spicciolo di privata malizia.
Il fatto: cade il cinquantenario della nascita di un personaggio dei fumetti, e neanche di un big, ma di un minore, che sta defilato nel corso del racconto anche se spesso è presente; dunque di una spalla, sia pure sempre in moto. Come uno di quei vecchi attori hollywoodiani che stanno scomparendo uno per uno, alla Walter Brennan, per intenderci; che non esplodono mai ma sono lì nei momenti più difficili, nei films più importanti, con altrettante facce o divise diverse (e si riconoscono subito dagli occhi, da come muovono la bocca, da una gestualità che non si lascia mai saziare).
Così mi capita con questo Pippo, il lungagnone amico di Topolino, che la consuetudine e una lettura poco attenta vogliono sempre ciucciariello e pistolone; o, spesso, ciuccio soltanto pernicioso. Spendo qualche parola per cercare di cavarlo fuori, per un momento, dal piccolo brago in cui sembra ritualmente conficcato, fra stupidi errori e stupide parole. Dato che per me questo meschineddu è il solo personaggio dei fumetti per cui abbia provato una tenerezza ilare ma anche conflittuale; una tenerezza maligna ma anche stralunata, fatta di piccole sorprese, piccole curiosità e di una certa complicità. Da allora fino al «Topolino» del 24 gennaio, che ha in copertina lui, travestito da indiano, con lancia e penne a fare ancora una volta il buffone apriporta per il divo che si fa aspettare. E il divo divelto è il topastro reaganiano dagli occhioni blu di nome Topolino che ho con viva cordialità detestato; perché è sempre accompagnato da qualcuno e da qualcosa, non è quasi mai solo di fronte agli avvenimenti; con quegli occhi eternamente cifrati e smielati, simili a quelli della nonna o della maestra severa (spalancati a dire sorpresa, stretti stretti per la rabbia o il disappunto) a sottolineare piuttosto lo sbaglio, l'errore, la riprovazione. Oppure il sollievo della buona coscienza legato ad una azione giusta, da bandiera americana. Infatti appare il topo e lo svolgimento del tema è scontato. Come un Orlando dimidiato passerà fra draghi, foreste, ladroni, guerre, fino alla conclusione felice nel migliore dei mondi possibili.
Il nostro invece, quando appare coi suoi piedoni da clown, sembra che stia catapultandosi per rompere il vetro del mondo; o, più semplicemente, tutti i bicchieri che sono in tavola. E come se fosse l'ombra di un aquilone già in orbita si trascina dietro tutto l'imprevedibile, tutto l'improbabile, in una sorta di balletto degli errori (non degli orrori) contrappuntati da un sorriso gagliardo; un balletto mai rallentato o incupito ma che perlopiù ha la leggerezza ironica e colorata di una azione seguita in sogno; di un umore, di una storia della fantasia.
La sua gestualità infatti, al fondo, è libera e scentratra, cioè svincolata dell'obbligo di significare i sentimenti ufficiali. E un po' come un Ariele bonaccione, squilibrato ma non squinternato, sul punto di realizzare azioni reali con metodi impossibili, tutti inventati e di una straordinaria e solo apparente inutilità. Il suo disinteresse per le cose è totale, la sua partecipazione verso gli altri è senza limiti. In altre parole: la sua dedizione è tanto disinteressata che può apparire quasi inutile.
Mentre nel gruppo dei personaggi «animali» sembra il più approssimato e il più arretrato (il più maldestro, il meno affidabile) egli ha una gestualità di una levità quasi surreale. Il suo corpaccio lievita senza mai opprimere la scena. Sempre proteso in avanti, con un ginocchio almeno sollevato, ci partecipa la promessa di un movimento aereo che lo distacchi da terra e lo liberi o lo sganci, con ironia, dalla oppressione della propria altezza.
Tenderebbe a volersi adeguare all'amico importante, al topo protagonista; ma mentre Topolino sembra che si disponga sempre a salire sopra un tavolo, ad alzarsi da terra, per riacquistare un qualche privilegio delle buone intenzioni che la statura gli contesta, Pippo si protende verso il basso solo per partecipare, per scherzare, per non acquietarsi. Per dedicarsi in qualche modo, quasi per offrirsi. I suoi errori sono tutti dentro alla speranza di fare bene; sono buone intenzioni del cuore. E il rosso della gola è la parte più colorata del corpo. Brucia come una piccola platea sulla quale ci si aspetterebbe la recita di una minuscola commedia, una azione dentro a una azione tutta da ridere o con qualche conclusiva tenerezza. Gli occhi sono due grumi neri puntati contro il capezzolo del naso, nero anch'esso; capezzolo rivolto all'insù mentre un tempo, proteso in avanti, gli dava un'aria insieme un pochino più bamba e più perversa; mentre la mano stesa e con il palmo a conca, è spesso nell'atto di chi aspetta qualcosa che debba piovere dal cielo, imprevedibilmente.
Ma è soprattutto il suo modo di camminare che dà il senso reale e sottile di una danza leggera leggera, goduta da quel corpone dinoccolato, senza nodi. Da questo saltimbanco non consumato dall'uso.
Non credo d'aver perso tempo neanche in questa occasione, dato che difendere questi personaggi minori ma più risentiti, più battaglieri, più liberi dall'invadenza e dalla pressione degli stereotipi ufficiali tutta patria e famiglia o tutta violenza massificata, mi sembra, in questo angolo di mondo e in questo momento, anch'esso un atto necessario. Convinto che non ci dobbiamo stancare di raccattare anche le briciole per tornare a disporre tutto sul tavolo.

“l'Unità”, 6 febbraio 1982

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