11.7.14

Il pacifismo cristiano e l'inutile strage (Domenico Losurdo)

Il papa cattolico Benedetto XV
Dopo i recenti distinguo del papa sulla pace, e dopo che il conflitto nel Golfo ha acceso nuovi confronti nel mondo cattolico, percorriamo all'indietro un po' di bibliografia del dibattito che ha animato il cristianesimo del '900 in relazione alla guerra.
Provoca una strana sensazione la rilettura, oggi, delle polemiche a suo tempo suscitate dalla nota con cui Benedetto XV definiva «inutile strage» la prima guerra mondiale, allora in pieno svolgimento. Tra i vari interventi è da ricordare quello tdi Giovanni Gentile che rimprovera al Papa di professare una «arcadica, anzi materialistica concezione della pace», del tutto inaccettabile «dal punto di vista cristiano e cattolico». Il filosofo non esita a impartire una lezioncina di catechismo: non bisogna dimenticare che per il cristianesimo non c'è pace «senza il sacrificio dell'uomo, che non rifugge pauroso dalle calamità né torna a Dio per conservare la vita e i suoi comodi, anzi le affronta lietamente, come quel fuoco purificatore, che può bruciare la carne e liberare lo spirito». Le prese di posizione di Gentile nel corso della prima guerra mondiale sono raccolte in Guerra e fede (vol. 43 delle Opere, Le lettere, 1989).
Per un altro verso, Gentile impugna la bandiera della difesa dello «Stato laico: se i cattolici prendessero sul serio la professione di «neutralità, che la Chiesa romana ostenta ogni giorno sulle colonne dell'Osservatore Romano», finirebbero col distruggere «in loro la sostanza più viva e vibrante del loro essere di cittadini». Il filosofo, che qui difende con tanta energia, in polemica contro l'autorità ecclesiastica, il diritto dello Stato di sacrificare in massa i suoi cittadini, si era già pronunciato, alcuni anni prima, per l'introduzione nelle scuole dell'insegnamento religioso...
Ma torniamo a Benedetto XV. Per comprendere adeguatamente la sua posizione, conviene tener presente che certo, già nell'enciclica del 1 novembre 1914 (Ad beatissimi Apostolorum principis), aveva espresso la sua angoscia per l'immane conflitto, il quale, però, era stato messo sul conto della tradizione socialista. «Ma non è soltanto l'attuale sanguinosa guerra che funesti le nazioni e a noi amareggi e travagli lo spirito. Vi è un'altra furibonda guerra, che rode le viscere dell'odierna società: guerra che spaventa ogni persona di buon senso, perché mentre ha accumulato e accumulerà anche per l'avvenire tante rovine sulle nazioni, deve anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente luttuosissima lotta».
Nel «pacifismo» di Benedetto XV svolgevano un ruolo importante il timore e l'orrore in lui suscitato da quel fenomeno che l'enciclica denunciava come l'«insubordinazione delle masse», e che la guerra mondiale era destinata ad aggravare. Risultano così largamente ingiustificate le accuse mosse a Benedetto XV: Croce consiglia pertanto a Gentile - col quale, in questo momento, si sente in piena consonanza sul terreno del liberalismo e del patriottismo - di «lasciare in pace il Papa, che fa il Papa e non può far altro». Da più fine politico quale era, il filosofo napoletano si rendeva ben conto del leale sforzo di collaborazione fornito dalla chiesa cattolica alla mobilitazione totale del nostro paese (così come dei paesi nemici). Sull'atteggiamento di Benedetto XV si può leggere Socialismo e cristianesimo (1815-1975) di Paolo Pombeni (Queriniana, 1977). E sulla posizione dei cattolici sarà utile riferirsi agli Atti del convegno di studi tenuti a Spoleto nel settembre del '62 (a cura di G. Rossini, Roma, 1963).
Per quanto riguarda l'Italia, i cappellani militari, nel 1911 (al momento della campagna di Libia) riammessi nell'esercito con funzioni limitate all'assistenza dei feriti negli ospedali, a partire dal 1915 acquistano un peso tale da configurarsi - l'osservazione è di Gramsci -come «l'unico coefficiente morale» di una disciplina militare che spesso e volentieri faceva ricorso al plotone d'esecuzione. Si potrebbe dire che, dopo la pausa risorgimentale, prima ancora di essere sancito a livello statale, il Concordato fa le sue prime prove sui campi insanguinati della prima guerra mondiale. Recatosi a messa il 31 dicembre 1916, per concludere con solennità patriottica il secondo anno di guerra, Mussolini rimane entusiasta della predica del cappellano militare: «Avrei voluto gridargli: Bravo! Avrei voluto andare a stringergli la mano. Voglio qui ricordare - scrive nel suo diario di guerra il futuro protagonista del Concordato - il primo discorso veramente ed accesamente patriottico che ho sentito in sedici mesi di guerra».
E tuttavia è innegabile un certo senso di disagio della chiesa cattolica dinanzi ad uno scontro che vedeva impegnati da una parte e dall'altra soldati chiamati a compiere il loro dovere (uccidere e morire) da cappellani membri e ministri di una medesima religione, e talvolta di una medesima confessione. Tale disagio sembra dileguare o attenuarsi in occasione di conflitti con nemici esterni alla cristianità: così, per fare un esempio, dopo l'aggressione della Germania nazista contro l'Unione Sovietica, il vescovo castrense Franz Joseph Rarkowski chiama i cattolici a partecipare alla «grande battaglia decisiva», destinata a spazzar via il «bolscevismo» e a rendere un servizio inestimabile «all'Europa e all'intera umanità».
Resta però il fatto che il cristianesimo viene guardato con diffidenza dagli ambienti più accesamente sciovinisti e militaristi già nel corso della prima guerra mondiale. Prima ancora della nota diplomatica dell'agosto 1917 in cui Benedetto XV denuncia l'«inutile strage», in Italia l'intendente generale dell'esercito esprime, in una circolare riservata, il suo disappunto per la depressione dello spirito guerresco che oggettivamente poteva derivare da certi discorsi di suore e cappellani. Dopo la nota pontificia, non mancano generali che manifestano l'opinione secondo cui sarebbe opportuno «impiccare» il suo autore. A proposito del movimento pacifista precedente all'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale, si può leggere Antimilitarismo e pacifismo nel primo Novecento di Ruggero Giacomini (Angeli, 1990); più in generale, sull'Italia nella prima guerra mondiale: Storia politica della grande guerra di Piero Melograni (Laterza, 1977) e L'Italia nella prima guerra mondiale di Piero Pieri (Einaudi, 1965).
Ma più importante delle polemiche d'occasione è la tendenza di fondo a una presa di distanza dal cristianesimo. La carica universalistica in esso presente viene guardata con diffidenza, oppure silenziosamente e surrettiziamente espunta: ecco allora filosofi tedeschi pur autorevoli, come Eucken e Natorp invocare la «fede tedesca» e il «Dio dei tedeschi». C'è poi un altro fenomeno significativo che si verifica in Germania. A partire dal 1914, i soldati caduti, spesso raffigurati in statue e monumenti come guerrieri greci, vengono seppelliti nello Heldenhain, il bosco sacro degli eroi al cui interno svolge un mole centrale la quercia, l'«albero tedesco» per eccellenza. La simbologia, chiaramente desunta dall'antichità classica o dalla mitologia germanica, comincia a soppiantare quella cristiana: si va delineando una sorta di religione nazionale, neo-pagana e guerresca.
Una tendenza che raggiunge il suo culmine negli anni del Terzo Reich, allorché consapevole diviene l'esigenza di una religione pienamente funzionale all'ideologia della guerra e, della guerra totale. Al cristianesimo bisognerebbe sostituire «il culto degli eroi»: questa l'opinione espressa, nelle sue conversazioni a tavola, da Hitler, il quale a tal culto attribuisce un ruolo importante nelle folgoranti vittorie conseguite dal Giappone subito dopo Pearl Harbor: «La religione dei giapponesi è anzitutto un culto degli eroi, in quanto gli eroi sono quelli che non esitano a sacrificare la loro vita per l'esistenza e la grandezza della patria». Su questa «teologia della guerra» Karl Hammer ha scritto Deutsche Kriegsideologie (1870-1918) (Munchen, 1971); sul tema dell'eroe: George L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito dei caduti (Laterza, 1990).
E' evidente l'aspirazione a una religione nazionale fondata sul culto degli eroi e atta a giustificare anche il dominio coloniale nelle sue forme più brutali, sino alla distruzione degli Untermenschen delle razze inferiori: di tale aspirazione il motto Gott mit uns (Dio con noi), caro alle SS, è solo l'espressione più sintetica e brutale.
E veniamo così alla guerra del Golfo. La stampa dei paesi impegnati nella coalizione anti-irachena, a parte l'omaggio formale alle risoluzioni (a certe risoluzioni) dell'Onu, non ha esitato a giustificare la necessità della spedizione punitiva anti-irakena in nome anche della salvezza dell'Occidente. Gli interventi di Giovanni Paolo II hanno messo in guardia, invece, dalla drammatica lacerazione che può derivarne nel rapporto tra Occidente e mondo islamico: una chiesa che, in seguito anche al processo di secolarizzazione dei paesi industriali più avanzati, trae dal Terzo Mondo una parte sempre più considerevole della sua forza, non può restare indifferente dinanzi a uno scontro che contrappone in modo più o meno esplicito Nord e Sud del pianeta. Non sappiamo se nei confronti dell'attuale pontefice, esponenti di rilievo dell'amministrazione Usa abbiano manifestato opinioni simili a quelle a suo tempo espresse da qualche generale italiano a proposito di Benedetto XV. Esplicito è comunque l'atteggiamento ostile di ambienti giornalistici e personalità del nostro paese che sembrano riscoprire una vocazione laicistica solo ora che si tratta di rivendicare il diritto dello stato e infliggere la morte ai suoi nemici e, indirettamente, ai suoi stessi cittadini, chiamati a servirlo in armi e a sacrificarsi in silenzio. L'atteggiamento di Gentile continua a far scuola.
Ma nella chiesa cattolica le contraddizioni sono oggi ben più acute e evidenti che nel corso della prima guerra mondiale mentre, già allo scoppio delle ostilità, il Movimento Popolare si è richiamato alle prese di posizione di Giovanni Paolo II per denunciare il trionfo del «petrolio» sul «diritto» e il sacrificio della «vita dei popoli» a vantaggio dei «diritti del petrolio» (si veda l'inserzione pubblicitaria su “La Repubblica” del 18 gennaio), l'arcivescovo Giovanni Marra ha celebrato il marinaio italiano ucciso a Dubai, come un «caduto per la guerra mentre prestava servizio alla patria e alla comunità internazionale». La contraddizione è in ultima analisi tra anima patriottica e occidentale e anima universalistica della chiesa cattolica e delle diverse confessioni cristiane in genere. E' in tale quadro che si inseriscono gli sforzi affannosi di Bush per ottenere un'efficace consacrazione religiosa alla sua campagna o alla sua crociata per la realizzazione del Nuovo Ordine Mondiale. Aveva provato con Edmond Browning, capo della chiesa episcopale presbiteriana, cui il presidente americano si sente o si sentiva particolarmente legato; dinanzi al suo rifiuto, ha ripiegato sul reverendo Billy Graham, che si è messo subito all'opera per ricercare nella Bibbia i passi atti a giustificare e trasfigurare l'attuale guerra (si veda l'articolo di Luigi Amicone sul “Sabato” del 16 febbraio). Molti anni sono trascorsi dai due conflitti mondiali, e colossali sono i mutamenti nel frattempo verificatisi. E tuttavia, anche l'attuale crociata ha bisogno di un dio occidentale. Di qui l'emergere di contraddizioni con la chiesa cattolica e con le diverse confessioni cristiane che, dopo la tragica esperienza della seconda guerra mondiale e dopo la presa di coscienza dell'irreversibilità del processo di decolonizzazione, più difficilmente che in passato possono mettere a tacere la carica universalistica insita nel cristianesimo.


“il manifesto”, ritaglio senza data ma 1990

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