13.7.14

Fascisti. Il podestà ebreo e l'ex prete antisemita (Giorgio Boatti)

Anni Trenta del 900.
Il podestà di Ferrara
Renzo Ravenna
con la moglie
Chissà se Renzo Ravenna e Giovanni Preziosi ebbero mai occasione di incrociare da vicino le loro vite. Due esistenze, le loro, che rievocate recentemente in due libri documentati e stimolanti - l'interessante biografia di Ilaria Pavan, Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali, edito da Laterza, e l'ampio saggio di Romano Canosa, A caccia di ebrei. Mussolini, Preziosi e l'antisemitismo fascista, pubblicato da Mondadori - appaiono più diagonali che speculari. Né la petulanza polemica né la virulenza della sua ossessione razzistica riescono a fare di Giovanni Preziosi qualcosa di più di uno sbilenco comprimario incastonato nella storia del nostro Novecento. Ravenna ha invece dalla sua la «simpatia umana che suscita il personaggio-uomo prima che il personaggio storico», come giustamente sottolinea Alberto Cavaglion nella postfazione al volume della Pavan. La parabola politica di Ravenna è presto detta: proveniente da un'importante famiglia della comunità ebraica di Ferrara, è interventista, combattente della «grande guerra», avvocato. Nel dopoguerra, pur esplicitamente su posizioni moderate, non partecipa a quella vera e propria operazione militare, punteggiata da scontri sanguinosi e distruzioni, con cui il leader del fascismo ferrarese, Italo Balbo, conquista le roccheforti socialiste e repubblicane in Romagna. Renzo Ravenna è fortemente legato a Balbo, non solo da un'amicizia che risale agli anni dell'infanzia e che nulla riuscirà a scalfire (neppure le leggi razziali) ma, anche, dall'esplicito interventismo. Non a caso hanno fondato assieme, in città, con l'apporto di sindacalisti rivoluzionari, di socialisti interventisti, di repubblicani e di anticlericali, il gruppo più deciso nell'invocare l'entrata in guerra.
Italo Balbo, quando nei primi Anni Venti si troverà in grave difficoltà, nella sua Ferrara, per l'assassinio del parroco antifascista don Giovanni Minzoni da parte degli squadristi locali, si rivolgerà proprio a Renzo Ravenna, peraltro neppure iscritto al fascio, chiedendogli di prendere le redini della federazione fascista. Compito di Ravenna sarà epurare gli estremisti, rassicurando con la sua presenza l'opinione pubblica moderata, sempre più allarmata dal dilagare di uno squadrismo che, nonostante l'ascesa al potere di Mussolini, continua con violenze e illegalità. Il giovane avvocato, poco più che trentenne, accetta così di gestire una situazione difficilissima che, tra l'altro, si colloca proprio nel tempestoso periodo della crisi determinata dall'omicidio di Matteotti. Successivamente Balbo lo vorrà a Roma come stretto collaboratore nei suoi incarichi nazionali, ma nel 1926 Renzo, aderendo ai desideri della moglie Lucia, sceglie di operare solo a Ferrara: e qui, per ben dodici anni, sino alle leggi razziali, è podestà della città.
Sarà un pubblico amministratore onesto ed equilibrato anche se, dopo la guerra, il suo concittadino Giorgio Bassani, nel racconto Una lapide in via Mozzini, ne darà - rivestendolo del nome di Geremia Tabet - un duro e sarcastico ritratto: «Quel vecchio fascista dell'avvocato Geremia Tabet talmente benemerito del Regime da riuscire per almeno due anni, dopo il 1938, a continuare a frequentare di tanto in tanto anche il Circolo dei Negozianti».
La caduta di Renzo Ravenna inizia quando, alla vigilia delle leggi razziali, deve dimettersi da podestà. L'uscita dall'incarico è motivata ipocritamente da ragioni di salute, ma Balbo non mancherà di dare plateali segni di solidarietà verso l'amico rimosso. L'ex podestà, sino al 1943, vive in una situazione simile a quella di altri ebrei «discriminati», ovvero colpiti dalle leggi razziali in forma attenuata, per i loro meriti patriottici o politici.
Fa bene Cayaglion, nella sua postfazione, a insistere sulla pietas che deve avvolgere questo capitolo penoso della nostra storia nazionale, che vede le vittime di un provvedimento infame riconoscere ancora autorevolezza e tributare segni di stima e sottomissione (come dimostrano molte lettere a Mussolini) a coloro che sono e saranno i loro carnefici. Anche Ravenna sembra non rendersi conto del pericolo che incombe su di lui e sui suoi, sino alla fine del settembre '43, quando, finalmente, fuggirà rocambolescamente in Svizzera con la moglie e i figli, mentre i suoi fratelli e le sue sorelle finiranno nelle mani dei nazisti che li deporteranno - quasi tutti - nei lager, dove saranno sterminati.
Dopo questa cupa apocalisse riemerge, indomabile, la testarda volontà di Renzo Ravenna di tornare, finita la guerra, nella stessa città dove è stato podestà fascista, meravigliandosi per l'ostilità di molti e non comprendendo le riserve di altri. In questo c'è tutta la complessa e al tempo stesso semplice filigrana di un uomo - morto in pace con tutti nel 1961, a Ferrara - che viene illuminato nelle pagine di Ilaria Pavan da una luce equilibrata, densa di spunti e ricca di sensibilità.
Segnato da un irreparabile cupio dissolvi, non ha certo questa forza e intensità il tragitto esistenziale di Giovanni Preziosi: e ben lo sa rendere Romano Canosa nel saggio dedicato all'ex prete, nato nel 1881 e diventato sin dalla vigilia della Grande guerra un portavoce dell'antisemitismo. Un ruolo cresciuto dentro il regime fascista sino all'ascesa, durante la RSI, all'incarico di ministro di Stato e di ispettore generale per la razza. In questo ruolo Preziosi vive la sua brevissima stagione di gloria: viene ricevuto da Hitler e diventa intimo di Mussolini. Si tratta solo di pochi mesi, che si concludono quando, nei giorni della Liberazione, braccato dai partigiani, Preziosi mette fine ai suoi giorni, assieme alla moglie.

Nelle due ricostruzioni, della Pavan e di Canosa, non c'è traccia di sovrapposizione diretta tra i tragitti esistenziali dei due, anche se il leitmotiv antisemita che Preziosi per decenni era andato sviluppando - nei suoi libri, nelle riviste (“La vita italiana”) e nei quotidiani (“Il Mezzogiorno”) da lui diretti - troverà il proprio coronamento nelle leggi razziali del '38 che distruggeranno il mondo apparentemente sereno del podestà Ravenna. Ma a irrobustire e avvelenare sempre più questi umori antisemiti, distillati decennio dopo decennio, avevano concorso in molti, poi scomparsi dalla scena o mimetizzati sotto nuove bandiere. Tutti in sintonia con l'ossessivo ritornello, seminatore di odio, di Preziosi.

"Tuttolibri - La Stampa", 10 giugno 2006

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