6.8.14

Catena di smontaggio. L'ultima colata di Bagnoli (Pino Ferraris)

Pino Ferraris, studioso e dirigente del movimento operaio scomparso nel 2011, legge il romanzo di Ermanno Rea La dismissione, sulla chiusura del centro siderurgico di Bagnoli e sulla crisi della comunità che intorno alla fabbrica era nata. Il libro – che ho ripreso in mano di recente - funziona ottimamente anche oggi a distanza di diversi anni, quando da Taranto a Terni molti segnali sembrano preannunciare la possibile fine di altre comunità di operai metallurgici. Ferraris mette qualche puntino sulle i, ma poi si lascia coinvolgere dalla narrazione di Rea e ne fornisce una lettura appassionata e convincente. (S.L.L.)

La grande ondata dell'industrialismo che sembrava senza fine si è spezzata e rifluisce lasciando indefiniti frammenti di società e spazi cavi. Dentro la mia esperienza tre grandi «dismissioni» si sollevano come segnali e ferite dello scarto inatteso: il Lingotto di Torino, la Pirelli Bicocca di Milano, l'Italsider di Bagnoli. Erano fabbriche con una storia di intelligenza tecnica e di iniziativa imprenditoriale, luoghi con una storia di cultura e di lotte della comunità operaia. Erano incastrate dentro il tessuto vasto e variegato delle città e di esso disegnavano la trama. Quella del siderurgico di Bagnoli fu sicuramente la «dismissione» più tormentata, drammatica e misteriosa, quasi un romanzo. Un romanzo sociale, una vicenda corale che il tecnico d'area delle colate continue Vincenzo Buonocore non può e non vuole raccogliere ed esprimere dentro la sua biografia raccontata ad Ermanno Rea. (La dismissione, Rizzoli, 2002, ne ha scritto Domenico Scarpa su Alias del 20 aprile).
Buonocore non è l'operaio che incontravo nelle assemblee di fabbrica e nelle riunione sindacali quando, durante gli anni `70, giravo dalle parti di Bagnoli. Narra di essere entrato all'Italsider nel 1969. Era manovale e aveva poco più di vent'anni. In quell'anno della lotta di liberazione degli operai metalmeccanici, dell'autunno caldo, lui dice di aver fatto il crumiro perché era convinto che si scioperasse per delle «cazzate». Armato di un robusto individualismo e dotato di una capacità naturale di infilarsi dentro l'anima delle macchine si è conquistato una carriera diventando tecnico d'area addetto alla manutenzione della colate continue. Niente ricorda di quell'aspra lotta contrattuale del 1973 che ha strappato l'inquadramento unico che, soprattutto in siderurgia, ai giovani come lui apriva le maglie della carriera professionale tra le proteste dei vecchi operai di mestiere. Quando ormai si parlava di liquidare l'Ilva, Buonocore ha appreso da un professore napoletano il significato che aveva avuto la nascita di quell'industria a Bagnoli, quasi un secolo addietro: una fabbrica-terapia, «un vaccino contro la locale malasocietà», la fabbrica come strumento della modernizzazione della città. La vicenda dell'origine della sua fabbrica, che tanto l'affascina, non suscita però ricordi degli scioperi e delle mobilitazioni che gli operai dell'Italsider hanno fatto nella prima metà degli anni 70, rilanciando l'antica missione: far scaturire dalla «poltiglia umana» dei vicoli di Napoli la vocazione nascosta e repressa per il lavoro. Gli scioperi per ottenere dalle Partecipazioni Statali investimenti nel Sud. L'interminabile «vertenza Campania» per l'occupazione. E' vero, l'Ilva non è entrata nel vicolo, anzi, il vicolo ha rischiato di inquinare la fabbrica. Ma le sconfitte non esonerano dalla memoria delle battaglie combattute. Alla fine degli anni 70 a Bagnoli si respirava una brutta aria: crisi dell'acciaio, bilanci in profondo rosso. Si scrutavano con ansia i sintomi che potevano annunciare la catastrofe, la chiusura dello stabilimento.
Solo quando ci fu la ristrutturazione, vennero i mille miliardi di investimento con l'automazione degli impianti e le nuove colate continue, ritornò la sicurezza e l'entusiasmo. Bagnoli vivrà e per questo si possono fare sacrifici: riduzione del personale, riorganizzazione del lavoro, maggior produttività. L'ultima cosa cui si poteva pensare era l'assassinio volontario e premeditato di una fabbrica appena risorta, era che fossero smantellati impianti nuovissimi, imponenti e costosi. Della lunga storia di agitazioni e scioperi a Bagnoli Buonocore ricorda soltanto la mobilitazione cui egli ha partecipato nella primavera del 1988 per opporsi al «folle sperpero». A Buonocore non interessa la storia della vita di un'impresa e tanto meno quella delle lotte della classe operaia di Bagnoli. Il fuoco della sua cronaca è la fabbrica che uccisa nel 1990 con l'ultima colata. Al centro del racconto c'è se stesso, la vicenda tutta personale del tecnico di manutenzione che dai vicoli di Napoli è salito all'arte di chi sa ottenere la perfezione dei movimenti dalla grande macchina moderna e che improvvisamente, quando ha appena superato i quaranta anni, si trova ad essere il dipendente di una fabbrica defunta cui dare soltanto sepoltura. Quando nel 2001 Buonocore inizia a raccontare la cronaca della «dismissione» ad Ermanno Rea il lungo calvario non è ancora finito. La «sua» colata continua è stata ceduta ai cinesi, l'altoforno 5 agli indiani, i forni a calce alla Malesia, ma il treno di laminazione aspetta ancora di essere smontato ed inviato in Tailandia.
Intanto sono passati dieci anni, lunghi anni trascorsi a seppellire il grande corpo inanimato dell'acciaieria. Dieci anni sono una vita, sono tutta una vita perché essi hanno divorato il passato ed hanno accecato il futuro. Un grande impianto siderurgico non è una qualsiasi fabbrica. Un impianto siderurgico non si ferma mai, né di notte né di giorno né d'estate né d'inverno. Un impianto siderurgico fa l'ambiente: l'aria, il cielo, gli odori, i rumori, le luci e le ombre, il paesaggio. Un impianto siderurgico plasma uomini di un certo tipo comandati dalla logica inflessibile delle cadenze e dei movimenti degli smisurati macchinari ma anche fortemente responsabilizzati a fronteggiare l'imprevisto, il rischio e l'emergenza, lavoratori che debbono congiungere il coraggio dell'individualismo e la risorsa della cooperazione.
Quando chiude un centro siderurgico è una apocalisse. Eppure Buonacore tutte le mattine ha l'obbligo di tornare, puntuale, al suo cimitero industriale. Mettere in sicurezza gli impianti, fare l'inventario, vivisezionare quel corpo morto di ferro e di cemento, elaborare i piani di smontaggio da inserire nella fredda memoria del computer. Tutto ciò che ora fa non è che un surrogato irriconoscibile di quello che era il suo lavoro professionale. Lui, Buonocore, era l'artista della manutenzione, il Tarzan che volava sugli impianti a bloccare una perdita, a correggere uno scarto, a domare un meccanismo riottoso, a penetrare e risolvere i problemi nel ventre di una macchina. Mesi e anni trascorsi in questa situazione fanno impazzire. Molti sono gli operai che vanno dallo psichiatra. Buonocore controlla le nevrosi, le ossessioni scatenate da una insopportabile crisi di astinenza dal suo lavoro, crisi che produce nostalgie invincibili della fabbrica viva, che induce fantasie sessuali di accoppiamento con le macchine, visioni mistiche e mitiche del mestiere. Quando l'ingegner Lonardi gli propone di prendere in mano «lo scettro» dello smontaggio delle «sue» colate continue, non ha dubbi. L'afferra l'impazienza tutta privata, personale per lo smontaggio, per questo suo ultimo appuntamento professionale che distruggerà la sua professione, per questa «dismissione» dentro la quale egli diventerà il dismettitore di se stesso. Non lo trattengono le minacce e le riprovazioni dei compagni di lavoro, degli irriducibili difensori dell'intangibilità della fabbrica. Ritornare a cimentarsi con la macchina, tornare al centro diventando il protagonista dello smontaggio a regola d'arte delle «sue» colate continue: questo è il suo progetto-ossessione. Buonocore era il manutentore, il «medico» delle macchine, colui che sapeva tutto sulla scienza della vita degli impianti. Ora è impaziente, nella nuova situazione di catastrofe, di spendere i suoi saperi sulla vita delle macchine per condurre a morte, con amorevole sapienza, la sua fabbrica. Di fronte all'ineluttabilità dell'evento non vede speranza di resistenza, spazi di contrattazione e di condizionamento, non c'è altro da salvare che l'integrità dell'impianto da consegnare ai cinesi che lo porteranno nella lontanissima città di Meihsan.
Nei dilemmi della crisi della «civiltà del lavoro» si può riflettere una più generale e paradossale alternativa dei nostri tempi: la solitaria resistenza del testimone anacronistico ed emarginato oppure la cooperazione attiva alla «grande dismissione» continuando a restare al centro pagando il costo della perdita di identità, di storia e di futuro. Con lo smontaggio e la demolizione il racconto diventa travolgente, tocca il suo vertice «epico» nella descrizione del corpo a corpo notturno e solitario con quei maledetti bulloni che nessuno era riuscito a smuovere. Dopo aver visto partire il cargo che porta la sue colate continue a Shanghai Buonocore dice: «La storia potrebbe finire qui». Ma qui non finisce.
Prima della partenza della nave, tra il serio e il faceto, ha detto alla moglie Rosaria: «Andiamo anche noi in Cina?». Lungo tutto il racconto, dall'inizio alla fine, si aprono e si chiudono le finestre su quel possibile futuro che con insistenza gli propone Chang Fu, il mite ed enigmatico amico che dirige la delegazione cinese a Bagnoli: Buonocore segui le colate continue e vieni in Cina a dirigere il tuo impianto. Questo futuro esotico richiede un passo troppo lungo al «dismettitore di se stesso» che velocemente è invecchiato dentro. Ma le fantasie di futuro hanno anche il volto giovanissimo di una donna che si chiama Marcella. E' la figlia di un compagno di lavoro, sindacalista generoso e carismatico morto precocemente di mal di fabbrica. Marcella emerge da quel mondo di giovani, «alieni da tutti i punti di vista», della Bagnoli post-industriale, consumista e sfaccendata, fragile e prepotente, degradata e camorrista. Da lei viene un appello di aiuto ed una offerta d'amore che Buonocore vive in una paralizzante ambivalenza di attrazione e di fuga che corrode l'equilibrio dei sentimenti proprio negli stessi anni in cui si frantuma l'identità professionale e la fabbrica si sbriciola e scompare. Marcella è un amore che non può venire, mentre quello di Rosaria è un amore che se ne sta andando. E la voragine della dismissione entra nel cuore. Le notizie della malattia e della morte di Marcella si insinuano dentro i rumori dell'estrema rovina della fabbrica, gli scoppi della dinamite, il fragore delle ruspe. La sventura che colpisce la sua acerba bellezza segna la smisurata ampiezza dell'onda rapace della dismissione che va oltre le generazioni e oltre la fabbrica vulnerata. Il funerale di Marcella che chiude il libro è la sola animata rappresentazione di una manifestazione di coralità popolare all'interno di queste pagine che pur narrano della vita, dell'agonia e della morte di quella comunità di lavoro e di lotta che fu l'Italsider di Bagnoli. Con quel lungo e affollato corteo che riunisce i giovani amici della ragazza con grosse automobili e vita sbandata insieme con gli anziani compagni del padre sindacalista che arrivano con la bandiere rosse che «sembravano armi dissotterrate», tutta la gente di Bagnoli, in un rito pubblico, piange la fabbrica scomparsa, gli affetti e le forme della vita lacerati, le antiche certezze cadute. Piange e così allontana la nostalgia ed incomincia ad elaborare il lutto per la perdita subita.
Dopo il cataclisma della «dismissione» che attraverso il mutamento crudele delle cose (tecnica, strumenti, economia) ha violentato le vite, i sentimenti, i valori delle persone, forse può succedere che risorga l'ostinato tentativo di trasformare invece le cose secondo rinnovati desideri e riemerse volontà delle persone.


“il manifesto”, 21 maggio 2002

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