6.8.14

La tragedia del Sud. L'anticipazione dei dati Svimez (Chiara Organtini)

Il Pil pro capite nel Mezzogiorno 
è sceso del 56,6% 
rispetto al centro nord. 

L'occupazione diminuisce, 
soprattutto per le donne. 

E lo Stato taglia i fondi 
destinati alle regioni meridionali, 
che intanto si spopolano. 

C’era una volta un ministro di uno dei governi Berlusconi, che era solito appellare lo Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, “sfighez”, tanto erano brutte le notizie sul sud d’Italia che puntualmente diffondeva. Leggende metropolitane un po’ birbone, ma che oggi non fanno più sorridere. Perché quello che lo Svimez ha anticipato alla Camera dei deputati, qualche giorno fa, rispetto al rapporto che presenterà come di consueto in ottobre, è uno scenario inquietante, stando ai numeri e ai dati economici sul Mezzogiorno.
Dopo sette anni di crisi e con le stime Istat sul Pil ancora più a ribasso che fanno il paio – flagellanti – con quelle del Fmi, c’era da aspettarsi che nel calo generale – il centro-nord si è infatti attestato per il 2013 sul -1,4% – anche il Mezzogiorno ne risentisse con un - 3,5% (in ulteriore flessione rispetto al 2012: -3,2%). Ma quello che non ci si può aspettare, e che questi dati raccontano, è il vuoto della crescita, dell’investimento e delle speranze fatto di numeri a doppia cifra, pieni, dolorosi.
Il Pil pro capite nel Mezzogiorno è infatti sceso del 56,6% rispetto al valore del centro-nord, tornando ai livelli del 2003 e testimoniando un calo della produttività, dell’occupazione e dei consumi che non ha precedenti. Perché quello che un calabrese – la Calabria è la regione con il Pil pro capite più basso d’Italia - poteva acquistare grazie ad un reddito medio di oltre 30mila euro l’anno nel 2002, non può più farlo nel 2014. È come se quel padre di famiglia – che forse all’epoca era appena uscito dall’università e che, in controtendenza e con la “capa dura”, ha deciso di rimanere nella sua terra d’origine – si trovasse ora a guadagnare: 15.989 euro.
Le sabbie di questo deserto sono rese ancora più palpabili dalla contrazione della spesa delle famiglie che hanno ridotto del 16,2% – nel sessennio 2008-2013 – tutti i tipi di consumi, persino quelli che tali non sono, come l’istruzione. Tanto che stanno calando persino le iscrizioni negli asili comunali – secondo l’Istat – e c’è una sorta di analfabetismo di ritorno perché un 20% degli under 2 non finisce neppure le elementari.
“E lo Stato che fa, incentiva questi ragazzi?” No. Destina invece i 5,6 miliardi di euro, le risorse per la manutenzione delle scuole, gli asili e le mense, basando il computo sulle serie storiche, vecchie categorie che il federalismo fiscale in teoria avrebbe dovuto spazzar via e sostituire con i reali fabbisogni, perché solo così il governo avrebbe potuto destinare un tantino in più alle scuole di Napoli che, si sa, non è la “prima della classe” e che invece porta a casa 66 sudatissimi milioni contro i 77 di Milano.
E sconcerta mettere insieme i numeri sull’abbandono del sud da parte dell’Italia: una dispersione in termini di impegno ed energia ben documentati da una spesa ordinaria del 27,6%, che non riesce neppure a corrispondere a quel 34,3%, la popolazione italiana nel Mezzogiorno. E poi gli investimenti delle imprese pubbliche che non ci sono perché il centro-nord attrae il 77,6% del totale nazionale (19,5 miliardi di euro, su 31,5 miliardi del totale della spesa in conto capitale della PA nell’area) e gli investimenti nelle infrastrutture – che dopo la fabbrica di San Pietro della Salerno-Reggio Calabria – sono stati tagliati barbaramente al sud: nel 2014 valgono infatti poco più di un quinto rispetto a quarant’anni fa.
Come se il Mezzogiorno non ne avesse bisogno, come se – quasi una beffa – esistesse, non immaginiamo un’Alta Velocità, ma almeno un treno diretto che colleghi due capoluoghi fondamentali: Napoli con Bari, per dirne una. E con la mancanza di connessioni tra le città, viene meno il mercato, la domanda interna, figuriamoci gli investimenti dall’estero.
Il sud continua a essere un’area sconnessa, dove le promesse di un decennio – almeno un decennio – non hanno mai intercettato una linea politica, un progetto per risollevare l’industria, un piano per il trasporto che anche quando c’era, una decade fa, non ha trovato realizzazione. La recessione ha colpito duro il sud laddove il settore manifatturiero, sempre un po' asfittico, ha ridotto del 27% la produttività, del 24,8% gli addetti e ha tagliato del 53,4% gli investimenti; mentre al nord il settore ha tenuto, con la metà delle perdite totalizzate dal Mezzogiorno.
E i dati che forse più colpiscono sono quelli sul deterioramento dell’occupazione (60% dei posti di lavoro persi sono al sud) legata al genere e ai cambiamenti demografici. Al sud gli occupati nel 2013, per la prima volta dal 1977 – l’anno da cui partono le serie storiche dell’Istat – sono scesi a 5,8 milioni (poco più di un quarto del totale in Italia) e in questi solo il 21,6% sono donne.
Nella graduatoria delle 272 regioni europee, le otto regioni del Mezzogiorno sono tutte (eccetto l’Abruzzo) nelle ultime dieci posizioni, quanto al tasso di attività femminile. E sulla scia di questa magrezza di chance lavorative e di aspettative di vita, continua l’esodo della futura – ma ormai non più – classe dirigente del sud, che ha già portato dal 2003 al 2013, oltre 2,3 milioni di giovani meridionali verso l’estero e il centro-nord.
Una “selezione avversa” che si combina ad un altro numero drammatico: in base alle previsioni Istat, nel prossimo cinquantennio il sud perderà 4,2 milioni di abitanti, mentre il nord ne guadagnerà quasi 5 milioni. Dal Mezzogiorno andrà via la base, resteranno invece gli anziani, non più “attivi”, dal “costo” sociale esponenziale per l’intero paese e zavorrati di tradizioni ed esperienze che non riusciranno facilmente a tramandare.
Il disequilibrio demografico è già in evidenza e con una “perdita” stimata di almeno 20mila persone fino al 2015, spiega lo studio Svimez: il sud ha infatti smesso di fare figli. Lo scorso anno nel Mezzogiorno ci sono state solo 177mila nascite, a fronte del dato in controtendenza delle 338mila al centro-nord: a un livello così basso non si arrivava dall’Unità d’Italia. E a nulla serviranno i flussi dei migranti dal mare o dal resto del continente, perché – ecco, il contrappasso – volano al nord, dove dall’inizio dell’anno ne sono già arrivati 140mila.
Il sud può anche stare senza i Bronzi di Riace, come suggerito da qualcuno, ma non vuole morire d’eutanasia.


Pagina 99, 2 agosto 2014

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