29.8.14

Le Carré (di Goffredo Fofi)

Un bilancio sull'opera di Le Carré di circa trent'anni fa. Il meglio lo scrittore lo aveva già dato e quel che è venuto dopo (anche di qualità) non aggiunge moltissimo al quadro. Quello che non regge al tempo è la qualifica di “cinico”. Forse era esagerata anche allora. (S.L.L.)
John Le Carré
Di spie e agenti segreti era piena la letteratura poliziesca, e c'era già stato Conrad a dimostrare come potessero essere gente comune, maldestra, mimetizzata senza sforzo perché, all'apparenza, "come tutti". Ma la prima spia moderna, prima di una lunga fila, fu Ashenden l'inglese, nel romanzo omonimo di Maugham. Pochi in Italia lo conoscono, lo pubblicò Garzanti molti anni fa e non l'ha mai ristampato. Purtroppo, perché è un romanzo assai bello.
Maugham aveva fatto la spia in Svizzera e in Russia durante la prima guerra mondiale, agli ordini dell'Intelligence Service. Molti scrittori, prima e dopo di lui, avevano passato informazioni, a pagamento e no, al governo di Sua Maestà: anche Kipling. Ma dopo Maugham vennero Greene, Ambler, Le Carré, tre ottimi scrittori, che seppero servirsi del loro periodo più o meno breve di attività spionistica "regolare" per derivarne idee e sfondi per tanti romanzi. Le sue caratteristiche erano state fissate da Maugham: protagonisti ambigui e spesso notturni, in genere mediocri; intrecci serrati e complessi condotti con ritmo cinematografico e (Ambler) con grande uso di flashback; riflessioni morali, insistite (Greene) o appena accennate (Ambler); perfetta padronanza delle logiche della politica internazionale.
L'avvento di Le Carré ha dato al genere nuovo fiato, ponendolo subito in alternativa ai fasullissimi James Bond di Fleming, ma non si può dire che la novità sia stata enorme, rispetto ai suoi predecessori. Semplicemente, Le Carré ha servito la Regina dopo la guerra e non prima o durante, e conosce meglio di Greene e di Ambler come la politica internazionale si è evoluta, e come sono cambiati i meccanismi che la reggono: più spietati, certamente più cinici.
L'altra novità è di tipo morale. Di Greene, cattolico per conversione, non si può dire certo che sia un cinico, e neanche del miglior Ambler (La maschera di Dimitrios, L'eredità Schirmer). Di Le Carré sì. La sua morale è semmai quella del gruppo, del "Circus" londinese formato dai suoi superiori e colleghi e guidato dall'ineffabile Smiley, ma non implica di per sé un'adesione ai "valori occidentali", alla tradizione inglese, all'emblema della Regina. C'è anzi, nei loro confronti, una buona dose di sfiducia, e nei confronti del lavoro scelto un semplice scrupolo di efficienza.
La spia deve lottare contro altre spie. "Spia" non è una parolaccia, in inglese, e in questi romanzi non lo è neanche, a ben vedere, se riferita alle spie di altri paesi; diventa tale soltanto quando indica dei traditori, della gente passata dall'altra parte. E che, più che la patria, a tradito il clan. Il sottomondo che le spie popolano s'intreccia con quello della politica, e non potrebbe essere altrimenti, ne è la faccia più oscura. Le spie anzi, per quanto ciniche, rischiano e spesso pagano; quelli che stanno "sopra" non rischiano. Povera gente, gente miserabile è la loro fauna a rendere così vivi e credibili i romanzi di Le Carré.
Le Carré è però miglior scrittore quando ha ambizioni meglio nascoste nelle storie e negli intrecci che non quando si diffonde a spiegarle. In alcuni casi rivela allora anche una qualche debolezza di giudizio (per esempio in La tamburina, che davvero non riesce a dare le loro ragioni né a israeliani né a arabi, nella sua logica di "un colpo al cerchio e uno alla botte"). E francamente dal punto di vista della complessità "letteraria" Le Carré non è un Pinter, anche se Pinter lo ha più o meno copiato nella sua sceneggiatura di Quiller memorandum.
Non a caso, anche i film derivati da Le Carré, pochi in confronto a quelli derivati da Greene e da Ambler anche da altri suoi epigoni come Deighton e Forsyth, sono più interessanti quando tratti dai primi libri (La spia che venne dal freddo di Ritt, con un ottimo Burton; Chiamata per il morto di Lumet, con un'indimenticabile Signoret) che non quando tratti dagli ultimi (i televisivi con Alee Guinness nei panni di Smiley, o l'insulso La tamburina di G. R. Hill). La forza della letteratura di spionaggio moderna sta anche nel suo essere “cinema” , influenzata dal cinema, e influenzante il cinema, basata sull'azione e la velocità, pur nella complessità, della "trama". Rinunciando parzialmente a questo, Le Carré pretende alla grande letteratura (cioè a Conrad) ma non sembra in grado di raggiungerla, e può perdere l'amore, l'interesse, la passione con cui i suoi lettori lo seguono. Sono uno di quelli, perché credo in una letteratura che abbia ancora qualcosa da raccontare che non sia per esempio la solita autoidealizzazione narcisistica dei letterati italiani, ma da un po' di tempo in qua mi scopro ad aspettare con meno ansia "l'ultimo Le Carré".


“L’Espresso”, 25 giugno 1985

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